Chi sei e che cosa vuoi da questa intervista...
«Allora, io sono Walid Kweder e sono alla ricerca di mio padre che è stato preso in ostaggio nel 2012 in Siria, dopo l’inizio della guerra civile. Cerco anche un po’ di attenzione mediatica per creare un po’ più di attenzione in generale, perché mi aspettavo di più dallo Stato italiano per un suo cittadino».
Tu vivi in Italia, sei nato qui?
«Sì, sono nato qui».
E tuo padre quanto l’hai visto l’ultima volta?
«Cinque minuti prima che lo prendessero in ostaggio».
Vi siete sentiti per telefono?
«No no, era un venerdì dovevamo andare in Moschea».
Cioé tu eri in Siria con lui?
«Sì, perché noi ci siamo trasferiti in Siria per fare le scuole primarie e le medie».
Quando?
«Tra il 2003 e il 2004, quando ero all’asilo».
Tutta la famiglia?
Sì, mio padre, mia madre e mio fratello».
E tuo padre lì che faceva?
«Era in pensione, quindi stava lì e si divertiva comprando terreni, immobili, metteva in affitto, vendeva, rivendeva. Ma un lavoro non l’aveva, poi veniva spesso in Italia. È stato per molti anni segretario alla facoltà di Giurisprudenza qui a Messina, aveva anche un ristorante, parallelamente alla vita lì in Siria c’era il ristorante qui a Messina. Quindi veniva spesso in Italia, fino al 2009, fino al 2010 mi sembra, è venuto l’ultima volta in Italia».
Torniamo sull’ultima volta che l’hai visto...
«Allora..., dicevo, era un venerdì, quindi si doveva andare in Moschea, è un po’ come la domenica per i cristiani. Quel giorno nevicava, quindi mi disse di non andare con lui perché c’era molto freddo in Moschea, perché ero solito andare con lui, in inverno, di Moschea. Sono rimasto con il mio amico e vicino di casa, a giocare a pallone nel suo giardino. Dopo circa venti minuti, mezz’ora, sono tornato a casa per il pranzo ed è venuto un nostro vicino di casa dicendoci che mio padre era stato preso, l’hanno preso insieme alla macchina, appena ha girato la strada di casa mia».
E da quel momento, se ho capito bene era il 2012, non avete avuto ma più notizie del tuo padre?
«No, solo per “sentito dire”. Lui mi ha lasciato un foglio, un numero di telefono, penso dell’ambasciata italiana, con scritto sotto “Aeronautica Militare”, e io con il mio italiano che non era tanto forbito, ho chiamato immediatamente questo numero come mi aveva dato lui eventualmente se lo avessero preso, e ci hanno detto, me lo ricordo bene, “Mezz’ora e lo facciamo uscire”. Ma questa mezz’ora dura da dodici anni...».
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