Compie 34 anni, la Lelat, la lega per la lotta all’Aids e alla tossicodipendenza. Un compleanno importante celebrato con una grande festa nella sede dell’associazione, da anni punto di riferimento per chi cerca una via d’uscita dal labirinto della droga. Anima e motore della Lelat è Anna Maria Garufi da sempre vicina a chi lotta contro la droga. Anno dopo anno ha vissuto i cambiamenti di questa realtà a partire dalle persone che si rivolgono all’associazione per chiedere aiuto. Alla soglia degli 83 anni dedica ancora gran parte della sua giornata ai ragazzi che hanno bisogno di aiuto e che vogliono uscire dal tunnel della droga.
Come è cambiato il mondo della tossicodipendenza?
«L’utenza sta cambiando completamente, sta diventando difficile gestire gente che è sempre meno motivata nei confronti del recupero. Arrivano persone che sempre più provengono dal carcere, alcuni riusciamo a coinvolgerli a riconoscere il problema con la sostanza stessa, l’onesta, ad analizzare la loro storia e riusciamo a dar loro qualcosa ma non è più come una volta quando si rivolgevano a noi i malati di Aids ed i tossicodipendenti che volevano disintossicarsi»
Cosa succede adesso?
«Adesso hanno la dipendenza da cocaina ma non la considerano, utilizzare le droghe prestazionali ma per loro non è drogarsi. La persona dipendente da eroina sapeva di avere un problema serio di dipendenza, ne voleva uscire, chiedeva aiuto, adesso arrivano per svoltare il carcere. Abbiamo solo due persone che non hanno problemi detentivi e che sono venuti a chiedere aiuto perché si sono resi conto di avere un problema».
In questi anni sono cambiate anche le sostanze stupefacenti...
«Ci sono ragazzi che sperimentano sempre nuove sostanze purché diano “la botta” come dicono loro, che aumentino e migliorino le loro prestazioni».
Come è nata l’idea della Lelat?
«Avevo iniziato molti anni prima occupandomi con i malati di Aids all’ospedale Margherita, tra di loro c’erano anche persone che facevano uso di sostanze stupefacenti, allora non c’era nessuno in Sicilia che si occupava di loro. Essendo aumentato il numero dei ragazzi che avevano bisogno di aiuto, anche io ho avuto bisogno di avere a fianco qualcuno a fare questo lavoro, mi sono rivolta a psicologhe, assistenti sociali amiche e così abbiamo messo su una struttura organizzata, prima mi muovevo da sola».
Ci sono momenti o fasi che ricorda in modo particolare?
«Le sconfitte sono state determinate soprattutto dall’Aids, erano ragazzi che pur avendo la speranza venivano sconfitti dalla malattia, sapevano che avevano poco tempo. A queste persone dicevamo sempre: “se non possiamo dare giorni alla vita diamo vita ai giorni”, sapevamo che erano ragazzi condannati, non c’era nulla contro l’Aids. Potevamo solo tentare di rendere quegli ultimi giorni della loro vita più intensi possibili perché sapevamo che andavano via e purtroppo sono andati via tutti. Poi per fortuna, sono stati fatti passi in avanti nella medicina, adesso l’Aids non è più una malattia mortale ma ricordo che quello è stato un periodo molto duro».
Ha parlato del rischio di un uso normalizzato della cocaina come intervenire?
«Il problema è a monte, è un problema educativo, questi ragazzi hanno sempre più bisogno di qualcosa che li stimoli a vivere. Bisogna capire quali sono i motivi, perché questi ragazzi già dall’adolescenza hanno bisogno di usare sostanze artificiali per supportare la loro allegria, la socialità , lo sballo. Inoltre in questi anni si è abbassata molto l’età dei consumatori, è arrivata una ragazza di 13 anni e poi c’è l’uso dell’alcol che per i ragazzi è quasi normalizzato, iniziano con la birra e passano anche ai superalcolici»
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