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Emozioni giallorosse, Bellopede: "Totò più di un fratello". Zeman: "Nato per segnare". Catalano e Mancuso: "Dolore profondo"

Più lacrime che parole. Antonio Bellopede è stato il capitano di Totò Schillaci per cinque stagioni. Dalla C2 alla B, dai campi in terra alla A sfiorata: «Una notizia terribile, Totò era un fratello – dice l’ex libero del Messina –. Anzi, era per tutti un fratellino, visto che era il più piccolo dei “bastardi”. Uno che sapeva come risolverci le partite e l’ha fatto tante volte. Se siamo arrivati a sfiorare la Serie A è anche per i suoi gol». Antonio al telefono parla singhiozzando: «Ho sperato fino all’ultimo nel miracolo, in un post su Fb gli ho anche chiesto di fare il suo gol più importante. Ma non è arrivato».
Peppe Catalano, il “10” di quel Messina che sapeva infiammare il “Celeste” non sa darsi pace: «Non voglio credere che Totò non ci sia più – dice in un pianto a dirotto –. Ci sentivamo spesso, fino all’ultimo ci siamo visti e non lesinava di chiamarmi quando veniva dalle parti di Agrigento. Lui è stato un fratello, abbiamo condiviso tutto in quattro anni di gol e gioie. È stato un calciatore fenomenale, il suo fiuto del gol era innato. Sapeva farsi trovare pronto, era sempre al posto giusto al momento in cui bisognava metterla dentro. Per me è stato facile fornirgli gli assist che lui, come pochi, sapeva trasformare in gol». E sul ragazzo dolce che era: «Sapeva faris volere bene. Anche nei suoi anni migliori è sempre stato umile, generoso, buono, schietto. Provo un grande dolore».
Carmelo Mancuso è una maschera di dolore. A Rtp ripercorre una vita vissuta in simbiosi con Totò: «Da quando giocavamo negli Esordienti fino al passaggio al Messina – ricorda l’ex terzino palermitano ma messinese d’adozione –, passando per l’Amat, la società che ci ha lanciato. Dormivamo nella stessa casa, ci allenavamo con i grandi del Messina, cullavamo gli stessi sogni. Il destino ha poi voluto che entrambi spiccassimo il volo. Lui sfruttò alla grande la sua occasione e dimostrò a tutti le sue innate qualità».
Zdenek Zeman è l’uomo che aprì definitivamente le ali al campione palermitano. Il suo gioco era pane per i denti affilati del bomber che ne stampò 23 in B sotto la sua gestione, passando a suon di miliardi (6) alla Juventus: «Totò era nato per far gol – dice, commosso, il boemo dalla sua casa romana –. Le sue qualità erano ben visibili già ai tempi in cui lo incrociavo nel campionati giovanili: contro le mie squadre segnava 2/3 gol a partita, era evidente che con il lavoro sarebbe arrivato dopo poi seppe imporsi». Già, il lavoro: quegli allenamenti “zemaniani” non erano digeriti da Totò: «A lui non piaceva allenarsi, ma giocare e tirare in porta – aggiunge Zeman –. Lo stuzzicavo spesso in allenamento, quell’anno avrebbe potuto fare più dei 23 gol che l’hanno eletto capocannoniere, ma spesso non mi ascoltava. E mi teneva il muso per i gradoni!». Un anno speciale per lui che l’anno dopo avrebbe indossato il bianconero della Signora: «Ricordo il gol al Genoa, bellissimo – conclude Zeman –. L’ho rivisto un paio di anni fa, mi ha riempito di baci e abbracci. E quello per me è il gol più bello. Ma se n’è andato troppo presto!».

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