La “mafia dei pascoli” c’era eccome: le 65 condanne decise in appello del maxiprocesso Nebrodi
All’indomani della sentenza. Per capire “cosa ci dice” il verdetto d’appello del maxiprocesso Nebrodi sulla cosiddetta mafia dei pascoli tortoriciana, che si è registrato nel tardo pomeriggio di giovedì all’aula bunker di Messina. Intanto c’è da considerare che questa decisione arriva a quattro anni di distanza dall’operazione, che si registrò nel gennaio del 2020. Considerando che stiamo parlando di una vicenda con cento imputati i tempi della giustizia in questo caso sono più che accettabili. Se pensiamo per esempio a come si perse per strada il maxiprocesso Mare Nostrum, a cavallo tra gli anni 90 e 2000, fortunatamente siamo a livelli ben diversi. L’altro aspetto preminente. Le 65 condanne d’appello, sia pure con forti decurtazioni di pena dovute in prevalenza alla “mannaia” della prescrizione, ma prescrizione non vuol dire che i reati non siano stati commessi, ci dice solo che sono “scaduti”, ci dicono che il fenomeno individuato e combattuto dall’allora presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, ovvero il drenaggio di milioni di euro dei contributi comunitari in agricoltura da parte della mafia tortoriciana e dei suoi “vicini di casa” nel totale silenzio di tutti, c’è stato eccome. E il grande merito dell’inchiesta della Procura di Messina, dei carabinieri del Ros e della Guardia di finanza, è quello di avere guardato finalmente, dopo anni di disattenzioni istituzionali, al fenomeno nella sua globalità. Stiamo però parlando di fatti che si sono verificati tra il 2014 e il 2017, ecco la “forbice” della prescrizione, con la più recente “Nebrodi 2” c’è stato un aggiornamento della situazione ma non bisogna mai far calare l’attenzione su una pratica strutturale di accaparramento di fondi pubblici che probabilmente continua ancora oggi, magari con alcune diversificazioni. Cosa nostra, la storia ci insegna, fa sempre molto presto a cambiare strategia operativa. Speriamo comunque che in questi anni gli agricoltori e gli allevatori onesti siano stati un po’ più liberi del passato. Un terzo aspetto. Anche in appello il concetto di “mafiosità” è stato riconosciuto solo per il gruppo dei Batanesi, se abbiamo fatto bene i conti sono stati condannati 13 loro esponenti, le pene più alte decise. E questo significa che i Batanesi, per anni, oltre al mondo della droga e delle estorsioni si sono dedicati in maniera sistematica alle truffe in agricoltura. Così come hanno fatto le famiglie Bontempo Scavo-Faranda-Crascì, ma qui anche i giudici d’appello, così come quelli del primo grado, non hanno riconosciuto la strutturazione mafiosa ma solo gli elementi dell’associazione a delinquere semplice. Punti di vista ovviamente, ma le truffe, ci dice la sentenza di secondo grado, ci sono state come fenomeno sistematico. Sul piano dei commenti abbiamo chiesto un’opinione sulla sentenza ai tre legali che difendevano ciascuno parecchi assistiti nel maxi procedimento. Ecco il loro pensiero sul dispositivo, ma tutti attendono come è ovvio di leggere le motivazioni. L’avvocato Alessandro Pruiti: «È una sentenza che va oltre le mie più rosee previsioni. Dopo cinque anni dall’inizio di un lungo calvario giudiziario, per tanti imputati finalmente è stata ristabilita parzialmente la verità e le condanne cominciano a essere proporzionate ai fatti di reato contestati. Non solo la galera è una pena per l’imputato, ma anche affrontare processi complessi come questo, quello “vero”, quello mediatico e quello di chi specula politicamente sulla sventura di chi incappa nelle maglie della giustizia. I difensori e gli imputati abbiamo vissuto con trepidazione sia l’attesa della lettura della sentenza del Tribunale di Patti stante l’esosità delle condanne richieste dall’Ufficio di Procura in quel grado, quanto la lettura del dispositivo della sentenza di appello, poiché la Procura per molti degli imputati aveva impugnato la sentenza di primo grado con richiesta di condanne ancora una volta, non proporzionate ai fatti ed ai reati contestati. La Corte di Appello si è pronunciata, a mio avviso, con equità di giudizio. Aspettiamo la motivazione, poi per quelle posizioni, dove riterremo che ancora giustizia non sia stata resa chiederemo che l’ultima “parola” la pronunci la Cassazione». L’avvocato Salvatore Silvestro: «Non intendo commentare la sentenza. Nonostante lo straordinario ridimensionamento dell’iniziale ed alquanto originale ipotesi accusatoria, del quale non posso non essere soddisfatto, provvederò certamente ad impugnarla nella parte relativa alla ritenuta sussistenza dell’organismo associativo capeggiato da Faranda Aurelio, e ciò nonostante la Corte abbia confermato la tesi difensiva sull’ontologica impossibilità di qualificarlo come mafioso, così rigettando l’appello proposto dall’Ufficio di Procura , nonché sull’adesione di tipo quasi fideistico alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che caratterizzava la sentenza emessa dal Tribunale di Patti e sulle quali è stata confermata la perdurante operatività dell’associazione di stampo mafioso denominata “clan dei batanesi”. Certamente ogni più articolata valutazione potrà essere sviluppata solo all’esito del deposito della motivazione». L’avvocato Nino Favazzo: «Ciò che, a mio avviso, emerge dalla lettura del dispositivo della sentenza emessa ieri è che i Giudici di secondo grado hanno sostanzialmente condiviso l’impostazione della sentenza del Tribunale di Patti. La Corte, infatti, salvo che su un punto assolutamente marginale, ha rigettato la insidiosa impugnazione dell’Ufficio di Procura, confermando la statuizione di insussistenza di un gruppo criminale, quello riconducibile ai Bontempo-Faranda, che la pubblica accusa ha sempre ritenuto connotato da “mafiosità”, al pari di quello dei Batanesi. La Corte è, però, andata anche oltre, giungendo ad assolvere imputati che, in primo grado, avevano riportato severe condanna e, più in generale, ridimensionando sensibilmente il trattamento sanzionatorio. Certamente residueranno margini per proporre ricorso per Cassazione, anche se, già dal dispositivo è dato cogliere la stringente coerenza della decisione che si segnala, è doveroso dirlo, per essere stata assunta da un Collegio giudicante che è rimasto del tutto insensibile rispetto al clamore mediatico che, intorno a questo processo ancora si agita. E ciò è stato possibile perché non si sono persi di vista i cardini intorno ai quali ogni decisione ruota e cioè il fatto contestato e l'imputato che è chiamato a risponderne».