Sin da bambina ha conosciuto il lato più duro della vita respirando povertà mista al degrado e la litania di chi ripeteva stancamente che “tanto sarà sempre così”. Grazia, nome di fantasia, ha vissuto sempre al limite tra difficoltà e speranza. «Sono nata nella periferia di Messina – racconta – in un contesto familiare degradato e soprattutto in una realtà spesso invisibile e che riemerge per le occasionali storie di cronaca». A diciassette anni, quando doveva dare forma ai sogni, la sua vita cambiò drasticamente. Rimase incinta e per coprire la situazione fu costretta a fare la classica “fuitina” con il suo compagno. Due giovani che dovevano portare un peso forse più grande di loro. «Questa scelta – continua – non rappresentava solo una tradizione collaudata ma anche una fuga dalle responsabilità che nessuno dei due era pronto ad affrontare. Le nostre famiglie, entrambe già in difficoltà, ci aiutarono a trovare una baracca dove poter andare a vivere, un riparo precario che rispecchiava la nostra esistenza fragile e marginale». A diciotto anni la giovane diventò mamma. Dover accudire un’altra esistenza faceva riflettere sul significato della parola “responsabilità”. E appena la sua primogenita spense la prima candelina scoprì di essere nuovamente incinta: «Crescere due figlie in quelle condizioni era una sfida immensa – ricorda – ma ci riuscivo grazie a vari lavoretti occasionali. Non lesinando sforzi. Facevo pulizie e davo assistenza a famiglie che avevano bisogno».
La situazione, solo apparentemente tranquilla, seppur difficile, mutò quando il suo compagno decise di abbandonare Grazia per un’altra donna. «Avevo ventotto anni. La seconda figlia andava ancora alle elementari e la più grande doveva iniziare le medie. Ero completamente sola a gestire tutto ed è iniziata una delle fasi più buie della mia vita». Altra immagine che accende tristezza? La giovane mamma non poteva bussare neanche alle porte della sua famiglia d’origine che le voltò le spalle. E per sopravvivere si adattò a fare qualsiasi cosa, sapendo che ogni occasione era buona per guadagnare qualche soldo. Tanto il suo sogno era semplicemente uno: evitare alle sue piccole una vita fatta di stenti e mancanze.
«Con l’aiuto di un’amica – afferma con gli occhi di chi sa cosa significa arrangiarsi – che quando poteva si occupava delle bambine andai avanti tra mille sacrifici. E la fatica non mi faceva paura. Ma le spese aumentavano e il lavoro diminuiva. E nonostante tutti i miei sforzi, i sacrifici non bastavano più. Ero costantemente preoccupata di non riuscire a provvedere alle necessità basilari delle mie figlie. Conoscevo “Overland” perché avevano in affidamento un mio cugino e qualche volta mi aveva aiutato in passato. Tuttavia la paura di chiedere ulteriore aiuto e di aprirmi veramente era per me come scalare una montagna insormontabile. Ero orgogliosa e non volevo mostrarmi vulnerabile, nemmeno a chi poteva realmente darmi una mano. Sentivo un peso enorme sulle spalle, un senso di fallimento che mi soffocava».
Un giorno, però, cadde il buio profondo. La figlia più grande tornò a casa triste e mortificata: i compagni di classe avevano la merenda e lei no. «Vedere la tristezza nei suoi occhi mi spezzò il cuore. Conoscevo bene l’umiliazione della povertà perché l’avevo subita sulla mia pelle e non volevo che le mie figlie la subissero. E così, in preda alla disperazione e accecata dalla voglia di rimediare, entrai in un supermercato rubai delle merendine e dei succhi di frutta. Insomma, quelle cose che per gli altri bambini rappresentavano la normalità quando suonava la campanella della ricreazione. Il mio era un gesto disperato, spinto dall’amore per le mie figlie e dall’umiliazione di una madre che non poteva offrire loro nemmeno una brioscina».
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