Messina

Sabato 23 Novembre 2024

Caso Alfano a Barcellona: il gip archivia l'indagine ter

Il cronista Beppe Alfano

L’unica nuova “verità” che scagiona Antonino Merlino dall’aver ucciso Beppe Alfano viene dal pentito Carmelo D’Amico, gli altri collaboratori che ne hanno parlato ai magistrati, il fratello Francesco, Nunziato Siracusa, Biagio Grasso, e da ultimo Salvatore Micale, lo hanno fatto dopo aver sentito la sua ricostruzione, mente erano insieme a un banchetto o in auto. E poi Merlino, quando è stato interrogato di recente sulle novità emerse, ha preferito il silenzio. Gli accertamenti sulle due pistole “North American Arms”, i revolver di calibro 22 sequestrati, non hanno sparato per ucciderlo, e i proiettili in possesso dei carabinieri del Ris sono «astrattamente compatibili con diverse armi». E poi sul fronte degli ipotetici mandanti alternativi al boss Gullotti, dagli accertamenti investigativi dei rapporti intercorsi tra Barcellona e Milano tra Rosario Pio Cattafi e Franco Mariani (quest’ultimo ipoteticamente coinvolto solo per la cessione della pistola, n.d.r.), con in mezzo uno dei revolver passato di mano tra i due, e tra Mariani e Mario Caizzone (quest’ultimo coinvolto solo come vicino di casa di Mariani, n.d.r.), non sono emersi spunti validi di altri approfondimenti. Eccole le tre questioni che forse sigillano la parola fine sull’indagine ter per l’omicidio di Beppe Alfano, il cronista de “La Sicilia” che venne ammazzato da Cosa nostra nella sua Barcellona e sotto la sua casa la sera dell’8 gennaio del 1993, in via Marconi. Per questo omicidio proprio l’autotrasportatore barcellonese Merlino sta quasi finendo di scontare la condanna a ventun anni e mezzo come killer riconosciuto per via giudiziaria definitiva, e l’altra condanna definitiva a trent’anni riguarda come mandante dell’esecuzione il boss Giuseppe Gullotti, capo di Cosa nostra barcellonese per lungo tempo, che di recente s’è visto rigettare a Reggio Calabria una richiesta di revisione proprio per questa condanna. Dal punto di vista tecnico l’archiviazione riguarda il barcellonese Stefano Genovese, che a suo tempo era stato iscritto nel registrato degli indagati con l’accusa di omicidio dalla Dda di Messina, dopo che l’ex boss poi pentito Carmelo D’Amico aveva riferito ai magistrati di averlo visto “operativo” con il suo solito cappellino, proprio la sera dell’omicidio. Secondo D’Amico - è questa la tesi che adesso dal punto di vista giudiziario viene archiviata - a Barcellona Pozzo di Gotto tutti sapevano che ad uccidere Alfano era stato Genovese, e che Merlino era innocente. Sono quattro i pentiti che hanno parlato in tempi recenti dell’omicidio Alfano: il primo è stato appunto Carmelo D’Amico, che ha indicato in Stefano Genovese il killer, per averlo visto quella sera sulla scena del delitto con un cappellino (i pentiti dicono che lo adoperava quando entrava in “azione” per conto della cosca, n.d.r.); poi è intervenuto il fratello, Francesco, quindi il pentito milazzese Biagio Grasso, che fu amico di Merlino per lungo tempo e raccontò di aver raccolto le confidenze sulla sua innocenza. Proprio dopo le dichiarazioni di Grasso fu fatto un tentativo dalla Dda e dalla Mobile di sentire Merlino in carcere, con il suo difensore presente, l’avvocato Giuseppe Lo Presti. Ma alla domanda precisa sulla sua innocenza, Merlino sostanzialmente non rispose. Poi c’è stato Salvatore Micale, l’ultimo pentito barcellonese in ordine di tempo, che ha parlato dell’esecuzione. Tre i passaggi più importanti delle sue dichiarazioni. Intanto ha confermato che, per quello che ne sa, l’autore fu Genovese e ne discusse direttamente con Merlino in carcere; che il mandante fu il boss Giuseppe Gullotti; che Cosa nostra barcellonese tentò il classico mascariamento post esecuzione. Ma ecco cosa scrive il gip Claudia Misale per motivare l’archiviazione: «In definitiva, e riassumendo le circostanze sopra rassegnate: unica chiamata in reità proveniente da fonte “diretta” è quella di D’Amico Carmelo; Grasso Biagio riferisce quanto appreso da Merlino Antonino, che si è avvalso della facoltà di non rispondere; Siracusa Nunziato riferisce anche lui notizie apprese da Merlino, comunque neutre rispetto alla posizione di Genovese Stefano; Micale Salvatore riferisce de relato da D’Amico e da Mazzù Nunziato; quest’ultimo avrebbe appreso a sua volta da D’Amico e non può comunque essere esaminato (è deceduto, n.d.r.). Manca, pertanto, l’essenziale requisito dell’indipendenza e dell’autonomia genetica delle chiamate in reità del Genovese, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse, necessario ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato. In relazione alla posizione del Genovese, l’opposizione va dunque rigettata e deve disporsi l’archiviazione del procedimento iscritto a carico dello stesso, non potendosi formulare una prognosi favorevole di condanna nei suoi confronti». Trent’anni alla ricerca della verità autentica. Un’indagine aperta per la terza volta, un lungo rosario di accertamenti, richieste di archiviazione da parte della Procura e opposizioni da parte della famiglia. Ma tutto questo non è bastato. L’omicidio di Beppe Alfano torna ad essere una delle più clamorose vicende di depistaggi, connivenze e fraintendimenti della storia italiana.

L'avvocato Repici: “I buchi neri della ricostruzione”

Abbiamo chiesto un commento al legale che da anni assiste la famiglia Alfano in questa battaglia per la verità, l’avvocato Fabio Repici. Ecco le sue dichiarazioni. «Pur non condividendola, soprattutto su alcuni punti, prendiamo atto dell’ordinanza di archiviazione. In realtà, è facile prevedere che le indagini sull’omicidio Alfano prima o poi, più prima che poi, saranno riaperte, non solo sull’identità del reale esecutore materiale che con un revolver calibro 22 nella sera dell’8 gennaio 1993 assassinò il cronista barcellonese. Come perfino esplicitato dalla stessa ordinanza del Gip, rimangono alcuni buchi neri nella ricostruzione del delitto che non potranno rimanere tali: l’individuazione del revolver utilizzato dal killer e la possibile coincidenza, ammessa dal Gip, con quello che alla data del delitto era formalmente detenuto dall’industriale milanese Franco Mariani, sodale del mafioso barcellonese Rosario Cattafi, e che si volatilizzò in circostanze mai spiegate; la latitanza di Nitto Santapaola nel barcellonese in epoca precedente, contestuale e successiva all’omicidio Alfano; le inspiegabili e mai spiegate anomalie investigative sulla scoperta, certa, da parte di Alfano, della presenza di Santapaola; il ruolo del Sisde e di un’intera filiera della Polizia di Stato in quelle anomalie; il “tentato omicidio colposo” a opera del Ros in danno del figlio di un possibile testimone; la abusiva riunione tenutasi nell’ufficio del colonnello Mori il 27 febbraio 1993 “per omicidio giornalista di Barcellona P.d.G.”. Su questo e su altro ancora le istituzioni, a partire da quelle giudiziarie, hanno l’obbligo giuridico e morale di impegnarsi senza lesinare sforzi, davanti alla memoria dell’ultimo giornalista assassinato da Cosa Nostra».

Sono trascorsi 30 anni

Trent’ anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto in un anno ci furono trenta morti ammazzati, uccisi per mano della mafia. Tra di essi, anche Beppe Alfano, un giornalista (il tesserino gli venne dato alla memoria), corrispondente per “La Sicilia”, la cui vita fu stroncata l’8 gennaio del 1993 con tre pallottole calibro 22, di cui una in bocca. Beppe Alfano, quando è stato ucciso, aveva appena 42 anni, era sposato e aveva tre figli. Fu ammazzato sotto casa, in via Marconi, intorno alle dieci di sera, mentre era sulla sua Renault 9 amaranto piena zeppa di adesivi. La vicenda giudiziaria si è conclusa con la condanna, ormai definitiva, a 30 anni del boss Giuseppe Gullotti quale mandante, e a 21 anni e 6 mesi per Antonino Merlino, come esecutore materiale dell’agguato. Una delle causali principali della morte di Alfano è collegata alla presenza in quel periodo del boss Nitto Santapaola nel circondario di Barcellona, coperto dalla famiglia mafiosa barcellonese. Secondo la tesi portata avanti dalla figlia del cronista ucciso, Sonia, le vere ragioni della morte del padre sono da ricercare proprio nelle coperture istituzionali della latitanza “dorata” di Santapaola, che Beppe Alfano riteneva d’aver individuato a Barcellona.  

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