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L'untore sieropositivo di Messina: "Prigioniero del suo stesso segreto"

L’imputato, dopo la morte per Aids della ex compagna, giungeva finanche a mistificare la realtà, negando il suo stato di sieropositività e attribuendo la causa del decesso della donna a discutibili comportamenti sessuali della stessa

Il Tribunale di Messina

Prigioniero del suo inaccessibile segreto. Quando le parole giudiziarie di una sentenza danno il senso della condanna. Quel “prigioniero” è il 59enne Luigi De Domenico, il cosiddetto “untore”, a giugno condannato per la seconda volta a 22 anni di carcere con l’accusa di omicidio volontario dopo l’annullamento del primo processo. L’accusa è quella di aver contagiato la sieropositivtà da Aids alla compagna, l’avvocata 45enne S.G., che poi morì non sapendo come curarsi. De Domenico - lo ha stabilito la sentenza -, non le disse mai di essere sieropositivo.
Adesso sono state depositate le motivazioni di quella sentenza, in tutto sono ben 203 pagine, le ha scritte il presidente della corte d’assise che l’ha giudicato, la giudice Letteria Silipigni.
E in un passaggio, verso la fine, quando come in ogni sentenza si parla del trattamento sanzionatorio, che la giudice enuclea questo concetto dopo aver passato in rassegna tutte le prove che lo incastrano per la morte dell’avvocatessa, un passaggio che forse riassume in poche righe l’intera vicenda, e l’intero processo. Eccolo: «Prigioniero del suo inaccessibile segreto, il De Domenico ha continuato indisturbato a intrattenere rapporti sessuali non protetti con le successive compagne che si sono avvicendate nella sua vita, ponendone a rischio la incolumità personale e finendo per contagiare una di esse (la ...) e allorquando ha appreso le gravi condizioni di salute in cui si trovava S., ha erto un castello intriso di bugie e silenzi, privando cosi la madre di suo figlio di una possibilità di salvezza e condannandola definitivamente a morte. Anche sul versante soggettivo, pertanto, benché le condotte ascrittegli siano collocabili nell’alveo della categoria del dolo eventuale, non può fare a meno di considerarsi come l’atteggiamento psicologico dell’imputato, proprio nei frangenti coevi e immediatamente successivi alla comparsa dei primi sintomi in capo alla G., si sia assestato su una più pervicace, convinta e mai rivisitata adesione al verificarsi dell’evento lesivo. Addirittura, l’imputato, dopo la morte per Aids della ex compagna, giungeva finanche a mistificare la realtà, negando il suo stato di sieropositività e attribuendo la causa del decesso della donna a discutibili comportamenti sessuali della stessa».
Ma torniamo indietro. Nelle prime pagine il magistrato affronta il tema della “causa della morte”, certamente l’Aids, e la sentenza mette in risalto tutte le gravi incongruenze dei due consulenti (Di Stefano e Berlich) con tesi definite a tratti «timide ed assertive», e con un «approccio eccessivamente parziale», a fronte invece delle articolate ed esaustive argomentazioni poste dai consulenti della parte civile, le dottoresse Mussini e Ceccherini.
Ma l’accertamento dello stato di positività del De Domenico, attraverso attività investigativa prima e dibattimentale poi, la sentenza dice che è stata «molto complessa», dando anche atto tra le pagine del contributo fornito dalla sorella della vittima sul passato di De Domenico, e sulla “scoperta” della sua relazione, risalente ai primi anni 90, con una donna sieropositiva poi morta per Aids nel 1996.

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