Era il 2017 quando l’inchiesta fece molto scalpore, perché della dimora nobiliare oggetto dello “scandalo”, Villa Mufarbi a Taormina, ad un certo punto perfino Silvio Berlusconi valutò l’acquisto. Quell’anno dopo un’indagine della Guardia di Finanza legata anche alla gestione della villa, finì nei guai l’imprenditore 52enne messinese Francesco Arcovito, cui i militari notificarono un’ordinanza di applicazione della misura interdittiva del divieto di esercitare imprese o uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, per 8 mesi, con l’ipotesi di fondo di bancarotta. Adesso, dopo ben sei anni di processo, che sono oggettivamente troppi, Arcovito è stato assolto da tutte le accuse con la formula “perché il fatto non sussiste”, dalla sezione penale del tribunale presieduta dal giudice Salvatore Pugliese, a fronte di una richiesta parziale di condanna solo per alcuni capi d’imputazione da parte dell’accusa. In concreto il pm Giuseppe Adornato aveva chiesto la condanna solo per i fatti relativi alle caparre ed all’uso degli immobili di via Battisti e Ganzirri, a sei mesi di reclusione, previa però la riqualificazione da bancarotta fraudolenta a bancarotta semplice, e poi l’assoluzione per tutti gli altri episodi, anche per l’insussistenza dell’elemento materiale ed intenzionale del reato. Arcovito in concreto doveva rispondere di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e dissipazione del patrimonio della società amministrata, la Hilde Fortini srl, in liquidazione, dichiarata fallita dal Tribunale di Messina. E tra le condotte ritenute in origine distrattive c’era anche la vendita alla società Ibis Redibis srl del prestigioso complesso edilizio a Taormina denominato “Villa Mufarbi”, per il prezzo di 3 milioni di euro, a fronte di un valore stimato in almeno 8 milioni di euro. Quello che hanno sostenuto i suoi difensori l’altra mattina, all’epilogo del processo, gli avvocati Nunzio Rosso e Alberto Gullino, ha fatto breccia convincendo i giudici. Qualche passaggio tecnico dell’arringa: intanto il compenso percepito come amministratore della ditta era assolutamente congruo, motivato ed in linea con le prospettive di guadagno per le operazioni in corso a quella data; in secondo luogo le caparre - hanno sostenuto i difensori -, tecnicamente non potevano ritenersi “perse”, non avendo agito nessuno per la risoluzione dei contratti, né mai chiesto l’esecuzione in forma specifica di concludere il contratto, e in ogni caso si trattava comunque di operazioni rientranti nell’attività societaria e nell’interesse della società; quanto poi a villa Mufarbi - hanno spiegato i legali -, è stata poi rivenduta allo stesso prezzo di acquisto, con il precedente incameramento di caparre versate dai “promittenti venditori”, che poi non procedettero all’acquisto, e il valore stimato di 8 milioni fu da subito contestato in sede tributaria, riconoscendolo corretto al “netto della crisi” del mercato che aveva in quel periodo investito il settore, per cui anche ove fosse stato l’altro il valore, sarebbe stato impossibile venderla; infine gli immobili in via Battisti e Ganzirri - hanno concluso i difensori -, sono stati temporaneamente destinati ad abitazione ma mai “distratti”, anzi rivalutati e nello stesso periodo trattati per metterli a reddito (locazione o vendita), non vi fu quindi alcuna distrazione intesa come fuoriuscita del bene dal patrimonio societario, o pregiudizio per i creditori del fallimento.