«Per me la bellezza è donare. Non ho mai pensato alla bellezza come qualcosa che viene solo da ciò che appare, ho sempre creduto invece che sia qualcosa che ognuno di noi ha dentro di sé e che il fotografo fa emergere con i suoi scatti per offrirla a chi guarda». Il mondo di Mimmo Irrera, 75 anni portati con gagliardia, è tutto in questa affermazione, in questo approccio rispettoso del soggetto da riprendere. Non per nulla è uno dei fotografi più bravi, sensibili e apprezzati, un punto di riferimento indiscusso a Messina. E non solo, è anche un appassionato e valente chitarrista classico, che dedica alla musica molto del suo tempo. Basta entrare sul suo profilo Fb e potrete ascoltarlo eseguire brani di Albeniz, Villa Lobos e altri. Ma Mimmo Irrera, per chi non lo sa, per più di trent’anni ha affiancato alla sua vocazione artistica il lavoro in banca.
Fotografo e bancario, non proprio due attività assimilabili. In che modo hanno convissuto?
«Direi bene, dalle otto del mattino fino alle cinque ero un impiegato ligio al dovere, dopodiché correvo a dare sfogo alla mia creatività. Imbracciavo la mia Canon Ftb, la fotocamera che comprai nel 1970, appena cioè cominciai a guadagnare, e me andavo tra la gente a scattare».
Che anni furono quelli?
«Pieni di soddisfazioni, perché da subito ottenni riconoscimenti importanti. Partecipai a parecchi concorsi nazionali e buona parte li vinsi, così come mi aggiudicai il primo premio a un concorso tenutosi a Bruxelles. Da lì presero l’avvio anche parecchie mostre, che portarono le mie opere in giro per il mondo: in Olanda, Austria, Belgio, ma anche a Roma e Milano, fino a New York».
La vita spesso è fatta di incontri importanti, che ci rendono più consapevoli e ci indirizzano. A lei è accaduto?
«Sì mi è capitato, ho avuto la fortuna di incrociare la mia strada con quella di un professionista della fotografia come Giangabriele Fiorentino, che mi ha insegnato tanto e mi ha permesso di crescere sul piano tecnico. Non smetterò mai di ringraziarlo abbastanza. Ma sono grato anche a Franz Riccobono, che mi ha arricchito moltissimo sul piano umano e col quale ho realizzato tre libri, “Taormina Immaginifica”, “Terra acqua e mito” e “Messina in pristinum”».
Che tipo di fotografia predilige e pratica?
«Io amo moltissimo il ritratto. Mi piace vincere il timore e la diffidenza delle persone per lasciarsi riprendere, ogni volta è una sfida nuova e questo mi esalta. Amo entrare in punta di piedi nella loro vita, parliamo molto e poi comincio a scattare, fino a quando la persona si scioglie del tutto, si fida e si affida a me. Solo così viene fuori l’anima, l’essenza di qualcuno. A me non interessa scattare per scattare, realizzare foto tecnicamente ineccepibili, ma senza quella luce che caratterizza ogni essere umano».
Lei scatta a colori o in bianco e nero?
«Io ho sempre scattato in b&n, dal 1970 al 2000, per me non esisteva altro. Il ritratto per me è solo b&n, amo l’infinita gamma di grigi che separano il bianco dal nero».
Lei negli ultimi anni scatta bellissime foto di luoghi cittadini. Da cosa nasce questo altro suo interesse?
«Ho voluto mettermi alla prova, affrontare un mondo nuovo, ma l’ho fatto soprattutto per ragioni editoriali. Così ho cominciato a riprendere ville famose e i loro proprietari, che sono diventate i soggetti dei tanti libri che ho pubblicato in questi anni, da “Messina Viva” a “Villa Cianciafara”. A breve sarà pubblicato un volume sulle cappelle gentilizie del cimitero monumentale con Nino Principato».
Fotografia con la pellicola e fotografia digitale: ha nostalgia per la prima, qualche riserva per la seconda?
«No, per nulla, mi sono trovato subito bene con le camere digitali, però una cosa la voglio dire: un fotografo non è un vero fotografo se non ha mai sviluppato in b&n. Detto questo mi trovo a mio agio con la foto digitale e con la postproduzione delle foto scattate, che tanti, scioccamente, demonizzano».
Ha qualche foto a cui è particolarmente legato?
«Certo, a tante, ma la foto più bella è quella che scatterò domani».
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