Una lunga lista di lutti e di vite spezzate e di morti ammazzati. Dalla mafia in tutte le sue propaggini, in Sicilia come altrove, a Messina e nella sua provincia. Vite che lottavano contro Cosa nostra o si trovavano per caso in una strada, una piazza, una casa, quando i killer designati dovevano uccidere qualcuno per contratto. L’elenco ogni anno si gonfia di altri nomi senza bisogno di bolli statali, e il 21 marzo Libera, la grande creatura di don Luigi Ciotti, li scandisce al microfono in Italia e nel mondo per ricordarli e in molti casi preservarli dall’oblio in cui spesso cadono, dimenticati da tutti.
Quest’anno la marcia nazionale di Libera si terrà a Napoli per la “XXVII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”. Messina la ospitò nel 2016 e il coinvolgimento dell’intera città fu grande. E quest’anno il presidio messinese di Libera, intitolato a “Nino e Ida Agostino” e coordinato da Tiziana Tracuzzi, alle 10 di giorno 21 per scandire quei nomi sarà a piazza Unione Europea, in contemporanea in centinaia di luoghi in Italia, Europa, Africa e America: «Lo faremo - scrive il presidio peloritano -, per il diritto fondamentale e primario alla verità, lo faremo per ribadire il nostro impegno e le nostre denunce contro mafie e corruzione. Lo faremo per promuovere, vivere e affermare la Pace».
Messina e la sua provincia hanno un pesante fardello di vittime innocenti di mafia, che ogni anno si allunga guardando negli archivi della memoria. Perché accanto ai nomi che hanno già una dignità del ricordo da tempo, altri sono emersi da poco, e altri ancora dovranno essere presto riaccesi dai nostri buchi neri.
Si chiamano Beppe Alfano, Domenico Pandolfo, Anna Cambria, Graziella Campagna, Ignazio Aloisi, Giuseppe Sottile, Attilio Manca, Antonio Mazza, Nino D’Uva, Elisa Geraci, ma ci sono anche Provvidenza Bonasera, Angelo Alibrandi, Antonio Falcone, Gregorio Fenghi, Giuseppe Napolitano, Nunzia Spina. Quasi tutti uccisi tra gli anni ’80 e ’90.
Carmelo Battaglia e Salvatore Carnevale
E ci sono poi altri due grandi siciliani nati in provincia di Messina e morti per mano mafiosa in un tempo ancora più lontano. In pochi oggi, a parte gli addetti ai lavori, ricordano la vita e il bagaglio di coraggio che ci hanno consegnato. Si chiamano Carmelo Battaglia e Salvatore Carnevale, nati a Tusa e Galati Mamertino. Con Battaglia, sindacalista e assessore comunale, socialista storico, si chiuse la cosiddetta “lunga strage” dei ventuno anni, ovvero lo stillicidio mortale di dirigenti e militanti contadini sterminati da Cosa nostra perché davano molto fastidio ai vecchi proprietari terrieri e alla mafia. Da oggi in tre puntate, verso il 21 marzo, li ricordiamo tutti sulla “Gazzetta”.
Salvatore Carnevale
Salvatore “Turiddu” Carnevale, originario di Galati Mamertino, era un giovanissimo sindacalista, che lottava contro latifondisti, mafiosi e forze dell’ordine corrotte, per garantire ai contadini le terre all’indomani della riforma agraria, e anche una dignità lavorativa. Arrestato e più volte minacciato, tre giorni prima di morire era riuscito a fare avere ai suoi compagni le paghe arretrate e le otto ore lavorative. Socialista e fondatore della Camera del Lavoro di Sciara, in provincia di Palermo, fu ucciso il 16 maggio del 1955 con cinque colpi di lupara in pieno volto, mentre all’alba si recava al lavoro come ogni giorno. Aveva appena 31 anni. Stava andando a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini, era immerso nei suoi pensieri lungo la mulattiera di contrada Cozze secche. La sera del 10 maggio, un emissario della mafia gli disse “Lascia stare tutto e avrai di che vivere senza lavorare. Non ti illudere, perché se insisti, nisci per riempire una fossa”, “Se ammazzano me, ammazzano Cristo”, rispose Carnevale. E il 12 maggio proclamò lo sciopero dei cavatori per il rispetto dell’orario di lavoro e il pagamento del salario. All’iniziativa aderirono trenta dei sessantadue operai: fu un successo. Pochi giorni dopo fu assassinato.
Ci rimane anche intatto il grande coraggio di sua madre, Francesca Serio, una donna eccezionale, la prima donna a denunciare apertamente la mafia in Sicilia, con i suoi tanti sacrifici giornalieri per farlo crescere e studiare. Era da sola a Sciara, andava “scandalosamente” a coltivare i campi, e in paese mormoravano perché era donna, accompagnava il figlio alle manifestazioni per le occupazioni delle terre, battendosi con le forze dell’ordine. Dopo la morte del figlio, Francesca, per la prima volta nella storia siciliana, denunciò pubblicamente i nomi degli assassini e dei mandanti e puntò il dito sulla corruzione delle forze dell’ordine e della magistratura. Ad accompagnarla in quei giorni c’era un socialista storico come Sandro Pertini. Il futuro presidente della Repubblica entrò in quella casa di morte a parlare con lei e le rimase negli anni sempre accanto. Il dirigente socialista tenne un discorso indimenticabile in una piazza gremita, a Sciara, in cui parlò a «coloro che stavano dietro le finestre», additandoli come i responsabili della morte del sindacalista. Le indagini sull’omicidio e sui quattro nomi fatti dalla madre di Carnevale furono svolte dal procuratore di Palermo Pietro Scaglione, che fu poi ucciso da Cosa nostra. I quattro accusati furono condannati all’ergastolo il 21 dicembre del 1961. Poi in appello e in Cassazione il verdetto fu ribaltato e vennero assolti.
L’uccisione di Carnevale ebbe una vastissima eco in tutta Italia. A Sciara arrivarono anche giornalisti di tutte le testate regionali e nazionali, Emanuele Macaluso ed altri dirigenti della Cgil, del Psi e del Pci. I funerali, anche se il prete si rifiutò di benedirne la salma, furono imponenti e solenni. “Per questa bandiera mio figlio è morto, con questa bandiera deve andarsene via”, disse la madre, avvolgendo con la bandiera rossa socialista la bara di Turiddu. Per Carnevale vi fu anche una straordinaria mobilitazione della cultura. A lui dedicarono articoli e commenti Mario Farinella, Marcello Cimino, Emanuele Macaluso e Leonardo Sciascia. Ma a rendere eterne le figure di Turiddu e mamma Francesca contribuirono lo scrittore Carlo Levi, con il libro “Le parole sono pietre”, e il poeta Ignazio Buttitta, con “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali”.
Carmelo Battaglia
Carmelo Battaglia fu ucciso all’alba del 24 marzo del 1966 a Tusa, in provincia di Messina, centrato da diverse scariche di lupara, le ultime lo raggiunsero in pieno petto, mentre percorreva una “trazzera” verso l’ex feudo Foieri. Il suo cadavere venne scoperto soltanto quatto ore dopo da alcuni contadini che percorrevano la stessa stradella. Gli assassini non si limitarono a sparargli addosso: vollero che il messaggio mafioso di quell’esecuzione fosse chiaro a tutti. Così sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su una grossa pietra. Venne eliminato perché si era apertamente e legalmente ribellato all’ordine costituito dalla mafia. Il territorio dei Nebrodi, dove Battaglia viveva, in quegli anni era un’area nella quale si verificavano con grande frequenza ricatti, estorsioni, abigeati, danneggiamenti di colture, angherie a danno dei contadini. I suoi assassini non sono mai stati individuati.
Sindacalista, assessore al Patrimonio della giunta di sinistra al Comune di Tusa, si occupava anche dei fondi comunali destinati a pascolo che interessavano molto anche alla mafia. Era stato uno dei soci fondatori della cooperativa “Risveglio Alesino” di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965, i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa “San Placido” di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare dalla baronessa Lipari il feudo Foieri, che era di ben 270 ettari. Subito dopo l’immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabelloto Giuseppe Russo, l’ex vicesindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e con il soprastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa “Risveglio Alesino” e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia. Del delitto fu accusato il boss Giuseppe Miceli, poi assolto per insufficienza di prove.
Il delitto Battaglia fu il tredicesimo consumato nel decennio tra il 1956 e il 1966, nel territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio. Esecuzioni tutte attribuite alla “mafia dei pascoli” e rimaste tutte, dicasi tutte, senza colpevoli.
Più precisamente c’è stata una catena di delitti rimasti impuniti consumati nel giro di 16 anni in quell’area dal 1953 fino al 1969, quando venne ucciso il pastore Pietro Corpora. In tutto sedici omicidi, quattro tentati omicidi e una miriade di altri reati, tra abigeato, ricatti, estorsioni. E ancora. In un ventennio, tra il 1946 e il 1966, la mafia ha ucciso una cinquantina tra sindacalisti, organizzatori contadini e dirigenti politici siciliani. E se andiamo ancora più indietro dobbiamo dire anche della morte nel 1944 di Andrea Raja, a Casteldaccia.
Sembra di rivivere i nostri giorni. Anche negli ultimi due decenni ci sono tanti cadaveri senza risposta disseminati in queste nostre terre. Nelle campagne dei Nebrodi. La mafia dei pascoli che uccide. I delitti che rimangono impuniti. Ora come allora. Oggi come ieri.
1. continua
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