A volte non si può comprendere l’importanza di certe azioni, di determinati fatti o eventi, se non si ha memoria storica, se non si capisce il punto da dove si è partiti, ancor prima di evidenziare dove si è ora e dove si vuol arrivare. In queste settimane si è detto di tutto e di più, sul risanamento delle baraccopoli messinesi. Un dato è certo: le due “favelas” simbolo della città dello Stretto non sono più abitate.
A Fondo Saccà e a Fondo Fucile non ci sono più famiglie baraccate. E questo grazie ai frutti di un’azione che, per quanto riguarda Fondo Saccà, risale alla Giunta Accorinti (che stipulò l’accordo con la Fondazione di Comunità e che partecipò al Bando Periferie del Governo nazionale) e, per Fondo Fucile, è opera esclusiva dell’Amministrazione De Luca e di Arisme, compiuta ancor prima che entrasse in vigore la legge con i poteri speciali affidati alla commissaria-prefetta Cosima Di Stani.
Tornando oggi in quei luoghi, la mente è inevitabilmente portata a compiere un balzo all’indietro. Intanto, al 2011 quando, sulla base del Censimento generale della popolazione effettuato dieci anni fa, l’Istat classificava le zone di Fondo Saccà e Fondo Fucile come i due insediamenti nei quali si viveva «il disagio socioeconomico più elevato della città». Ecco, questo è già un “feedback”, una fotografia della situazione “ante” da tenere in conto.
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