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Barcellona, la rapina in banca e quel licenziamento finito in tribunale

Un’inchiesta chiamata “Gianos”, con ipotesi di reato che vanno dall’associazione a delinquere al riciclaggio e almeno 17 indagati finiti nel mirino della Guardia di Finanza. È stata una fine di 2020 turbolenta per la Banca di Credito Peloritano Spa, istituto di credito “commissariato” su input di Bankitalia. Istituto che, però, era balzato agli onori della cronaca, quattro anni fa, per un altro episodio, rimasto con alcuni punti oscuri. E a quell’episodio, la famosa rapina da oltre 400 mila euro del 28 marzo 2017, effettuata nella filiale di Barcellona Pozzo di Gotto, è in qualche modo legato un procedimento “minore”. Quella rapina, infatti, fece due “vittime”, in un certo senso: la prima è Mirko Silvestri, cassiere della filiale, macchiato dell’accusa di essere il complice interno, salvo poi essere assolto in appello con formula piena; la seconda, sottotraccia, è un altro impiegato, Salvatore Caruso. Che nei prossimi giorni tornerà in tribunale, difeso dall’avvocato Francesco Fiorillo, per contestare il licenziamento subito due mesi dopo la rapina.
Riavvolgiamo il nastro. Il 28 marzo avviene una rapina lampo, con un bottino record: oltre 400 mila euro, in attesa di essere prelevati dal portavalori, sottratti in pochissimi minuti. Cosa c’entra Caruso con tutto questo? La ricostruzione è nella memoria difensiva presentata in Tribunale dopo il suo licenziamento: alle 11 circa di quella mattina Caruso, dopo aver chiesto l’autorizzazione al direttore, esce per una breve “pausa caffè” e prima di assentarsi «verifica che l’accesso in Banca sia inibito al pubblico».

Al suo ritorno in ufficio, scopre che c’è stata una rapina. Tutto finito? No, perché poco meno di un mese dopo, il 24 aprile, Caruso riceve dal Cda della Bcp una contestazione disciplinare: vane le giustificazioni, l’11 maggio arriva la lettera di licenziamento, che verrà impugnata. In tribunale l’impiegato dell’istituto di credito (la sua mansione era sostituto titolare e responsabile dei servizi esecutivi) evidenzia, tramite il suo legale, una serie di punti: «I plichi contenenti i valori vengono confezionati, chiusi e tenuti pronti all’interno del tesoretto, per l’immediata consegna, in quanto gli addetti al trasporto dei valori non possono attendere l’apertura del tesoretto temporizzata». E «nonostante nel regolamento interno della Banca sia previsto che alle società di trasporto venga consegnato una chiave denominata “Dallas” o “Jolly” che permette l’apertura automatica del tesoretto, così da ridurre i rischi di rapine, nella realtà, la filiale non era dotata della suddetta chiave; il sistema (…)prevede una cassaforte principale all’interno della quale vi è un'altra cassaforte più piccola denominata tesoretto, dove vengono contenuti i contanti».
In sostanza «affinché possa essere prelevato il contante, è necessario che oltre ad essere aperta la cassaforte principale, sia sbloccata anche la combinazione del tesoretto» e Caruso «in base alla sua mansione non era in possesso, né poteva esserlo, della combinazione-chiave del tesoretto». Eppure la banca finisce per licenziare Caruso, nonostante «nella filiale, il giorno della rapina, fosse presente anche il direttore, detentore anch’esso delle chiavi della cassaforte». Altra anomalia evidenziata dal legale: il licenziamento viene stabilito «direttamente dalla direzione generale della Bcp di Messina. Appare lecito domandarsi come mai un provvedimento così estremo sia stato assunto senza tenere conto del parere del direttore della filiale».
Per questo, afferma l’avvocato, «far “pagare” al sig. Caruso, per un evento di cui lui non ha responsabilità, è una vera e propria ingiustizia, e creerebbe un precedente assurdo, poiché significherebbe permettere ai datori di lavoro di approfittare di un qualsiasi evento estraneo al lavoratore, per potersene “liberare”».

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