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Un mese di emergenza Coronavirus a Messina: "C'è un calo, ma niente fretta"

I dati ci dicono che abbiamo pochi casi e che dal 1. aprile abbiamo avuto un andamento lento. Ma non è ancora finita». Giuseppe Nunnari è professore ordinario e, soprattutto, direttore dell'Unità operativa complessa di malattie infettive al Policlinico.

Ovvero la primissima linea nella battaglia quotidiana contro il Covid-19. «Abbiamo pochi casi giornalieri - conferma -, sicuramente le restrizioni hanno avuto un ruolo importante. Dobbiamo sperare che non scoppino altri focolai. La città di Messina sta rispondendo bene, i dati ce lo dicono».

- Sono stati evidentemente i focolai a incidere pesantemente.

«Delle 26 vittime, 6 erano sopra i 90 anni, 15 tra 80 e 89, quindi 21 su 26 dagli 80 anni in su. Di questi, 11 tra 85 e 89. È la fascia d'età più fragile, quella che dobbiamo proteggere.

- Siete intervenuti con un vademecum inviato alle case di risposo.

Abbiamo inviato un vademecum affinché vengano seguite delle regole per la gestione e soprattutto la prevenzione del contagio. Serve monitorare tutti i lavoratori ed è necessario che, ove possibile, i pazienti indossino la mascherina quando vengono assistiti e lo stesso i lavoratori».

- Cosa non ha funzionato nelle strutture per anziani?

«Probabilmente ha inciso il fatto che all'inizio della pandemia non erano ancora entrate in vigore restrizioni e monitoraggi. Oggi c'è un'attenzione diversa. Con più distanze di sicurezza, se ognuno cena e pranza nelle proprie stanze e non in locali comuni, con il cambio continuo dei guanti, la sanificazione di porte, maniglie e superfici che vengono toccatela, diffusione di eventuali contagi diventa più difficile. Il rischio c'è sempre, ma più misure vengono rispettate e minore sarà il rischio».

- Si può dire, però, che il contagio è rimasto più o meno dentro i confini dei focolai.

«Si è riusciti a contenere e gestire i focolai. Abbiamo accolto molti pazienti dell'Irccs e della “Come d'incanto”. Quindi abbiamo messo a punto un piano per intervenire al meglio. Il percorso oggi lo conosciamo, abbiamo le misure per essere pronti ove dovesse scoppiare un altro focolaio. La vicenda della “San Martino” è stato un esempio. Credo che oggi saranno tutti più accorti nella gestione di nuovi casi».

- Dopo un mese di emergenza, a che punto siamo?

«Ieri hanno aperto le maglie in Cina, dove sono 40 giorni avanti a noi. Il nostro termometro è quello, bisogna capire cosa accadrà lì nelle prossime due settimane. Anche se in questo momento in Sicilia la situazione sta andando bene, non dobbiamo avere fretta di riaprire. Forse ci saranno strascichi per mesi, dovremo tenere cautelati i soggetti sopra i 60, forse anche sopra i 50 anni. Quali realtà lavorative potranno riprendere verrà deciso dopo Pasqua, secondo logiche sociali, epidemiologiche ed economiche.

-Teme che, con il rallentare dei casi, si possa generare l'idea sbagliata che si potrà allentare la presa?

«La psicosi c'è, la gente ha paura. Sicuramente stare a casa e non poter fare altro che la spesa è alienante, ma di certo non riapriranno bar, ristoranti o discoteche. Quando si riprenderà ad uscire, lo si farà con molta cautela».

- Cosa significa “convivere col virus”?

«Significa continuare a rispettare le norme di igiene e di cautela. In estate il fenomeno potrebbe anche ridursi, ma ancora non lo sappiamo».

- Però i dati sembrano suggerire che il picco, almeno qui, sia stato raggiunto e superato.

«Negli ultimi 4-5 giorni siamo stabili con non più 6-7 casi al giorno, ma altri focolai potrebbero provocare nuovi picchi, sebbene confinati».

- Sono le strutture sanitarie, adesso, i luoghi più a rischio?

«È iniziata la sorveglianza con tampon e test. È ovvio che se si resta a casa il rischio è minimo, negli ambienti in cui si deve necessariamente lavorare il rischio è inevitabilmente maggiore, con tutte le precauzioni del caso».

- Come ha risposto, secondo lei, il sistema sanitario siciliano?

«A Messina, ma anche in altre realtà, e in un lasso di tempo breve siano l'assessorato ha fatto sì che si creassero diversi padiglioni Covid in grado di accogliere un numero importante di persone, anche dal punto di vista clinico-assistenziale. Abbiamo avuto il vantaggio di non dover affrontare gli stessi numeri del Nord».

-Il temuto impatto del “contro-esodo” dal Nord c'è stato?

«Un minimo di impatto c'è stato. Chiaramente l'attività lavorativa frenetica della Lombardia, congiunta alla loro efficienza dei trasporti pubblici, ha favorito l'interazione uomo-uomo e quindi il contagio».

- Verrebbe da dire che il nostro ritardo infrastrutturale ci ha aiutato.

«Forse sì, anche se potrebbe apparire banale. Ma non è un caso che la provincia siciliane maggiormente colpita sia stata Catania, col suo aeroporto ed il maggiore attivismo sociale e imprenditoriale. L'importante è non raggiungere certi numeri in poco tempo. L'aver ricevuto 60 pazienti in 3-4 giorni ci ha messo a dura prova. L'obiettivo è far sì che quello che deve accadere venga diluito nel tempo.

- Si può sperare che qui in Sicilia si possa tornare ad una parvenza di normalità prima che al nord?

«Penso di no, dobbiamo attendere e capire quello che succede in altre zone. E sempre proteggendo le fasce più fragili. Fare previsioni è azzardato».

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