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Roberta Maddalena, la messinese che vive a Milano: il racconto di una vita surreale rileggendo Manzoni

Pubblichiamo il contributo di una giornalista nata a Messina ma che vive a Milano da 10 anni. Racconta la sua esperienza, e le riflessioni, in un momento così difficile per tutti. La voce dei tanti che stanno vivendo questa condizione in solitudine e lontani dalla propria terra

Roberta Maddalena

Ne sono stati trovati a migliaia in diverse zone della città. Attaccati qua e là, sulle porte delle chiese o sulle fermate degli autobus, sulle vetrine dei negozi o sulle panchine dei parchi. Perfino sui citofoni. Tutti luoghi transitori, per diffondere a chiare lettere un solo messaggio: possiamo farcela, solo se restiamo uniti e non perdiamo la speranza.

È però mistero sull’autore dell’iniziativa. Sui social, che ormai sono diventati l’unico modo per sentirsi meno soli, ci si confronta interrogandosi sulla sua identità. Ma nessuno lo ha visto né sa chi possa essere stato. Un’azienda? Un gruppo di amici? Privati cittadini che ne imitano altri? Per il momento rimane un grosso enigma, e forse è giusto così. D’altronde, l’intento dei biglietti credo stia proprio in questo: incoraggiarsi senza chiedere nulla in cambio.

Poiché in questi giorni di tempo ne abbiamo fin troppo, ho deciso di rileggere per la seconda volta I promessi sposi di Manzoni. A un certo punto, il romanzo dice così: “Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”.

All’inizio, persino le autorità non gli avevano dato credito. Grande salto temporale, 21 febbraio 2020. Per Milano sono giorni frenetici per via della settimana della moda; negozi, bar, showroom: tutto è in fermento per uno dei periodi di maggiore visibilità. Tutto fino a quando sul web iniziamo a leggere i primi articoli sulla diffusione del virus, e cogliamo un registro completamente diverso da quello che era stato usato nelle settimane precedenti. Aumento dei contagi, terapia intensiva e ospedali saturi diventano nel giro di 24 ore le parole più usate nei titoli di prima pagina.

Si conclude una settimana a tratti surreale: la vita lavorativa continua ma fuori, in strada, si inizia a percepire paura, confusione e senso di colpa. Ma c’è ancora chi la definisce una semplice influenza. E le fake news? Ci sono pure quelle, come quella degli untori nel Duomo di Milano. E le teorie complottiste? Anche loro non mancano all’appello. E così mentre decidiamo se fidarci dei pareri di Gismondo o Burioni, iniziamo a fare incetta di notiziari e assumiamo i panni degli esperti di virologia. Intanto, la vita inizia a scorrere più lenta e si iniziano a fare i conti con cose prima sconosciute.

Oggi, dopo 17 giorni di reclusione in casa, ci ho capito pochissimo e continuo a capirci molto poco. Vivo a Milano da 10 anni ma sono nata a Messina, dove per ragioni lavorative ho dovuto lasciare il mio cuore. Quando ho appreso che centinaia di meridionali avevano assaltato la stazione di Milano per tornare al sud ho provato tanta rabbia: “come si può essere tanto egoisti?”, ho pensato. Ed ecco che torna di nuovo utile il buon Manzoni: “Sono partiti prima della mezzanotte. Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna”. A dimostrazione che gli anni passano, ma l’indole umana è restia a cambiare.

Nel frattempo, una volta a settimana mi faccio coraggio ed esco per andare a fare la spesa. Quando esco di casa, alle 7 in punto, c’è già fila. Stamattina il cielo è grigio, nessuna nuvola però. Mi chiedo se fa freddo, che odore abbia l’aria. Vorrei essere un fiore, vorrei essere un insetto per poter volare sopra le teste delle persone. Azzerare questo silenzio e tornare a fare rumore. Sorrido dietro la mascherina, e faccio per portarmi una mano ai capelli: c’è un po’ di vento, e i capelli sono finiti direttamente sulla benda di carta. Coi guanti che indosso fatico però a spostarli, e un attimo dopo ci rinuncio.

Tutte queste cose sono successe in quasi due mesi. Non saprei neanche dire bene quando perché è come se tutto, e a volte anche il contrario, fosse capitato insieme. Un giorno ci viene detto di dover rispettare un metro di distanza, quello dopo che dobbiamo considerarci come note di uno stesso spartito: se una non segue il ritmo delle altre verrà cancellata con una gomma. Non so bene a cosa aggrapparmi, da qui. Allora inizi a rivalutare le cose messe nel cassetto. L’importanza di una videochiamata in piena notte, le risposte nella tua testa, la solidarietà degli amici che come te, adesso soli, chiudono gli occhi e sognano il mare blu di casa. Non hanno ancora nemmeno 23 anni i giovani neolaureati in infermieristica che hanno accettato, con ancora la coroncina in testa, di indossare il camice e contribuire. Con la paura che chiunque di noi avrebbe ma con il coraggio degli eroi. Lo stesso di mio padre, medico pediatra, e degli eroi in camice bianco che si stanno comportando come i capitani di una nave in tempesta.

La sera, quando le file al supermercato sotto casa sono finalmente cessate, è forse il momento più sereno della giornata perché qui, a Milano, cala quasi sempre un silenzio che si trasforma in musica. Canzoni gridate dai balconi, alcune patriottiche altre motivazionali, e allora ti affacci anche tu alla finestra e per farti vedere accendi una candela.

Al profumo di meraviglia, per tutta la bellezza che ci viene negata. Un giorno, spero non lontano, quando le sirene delle ambulanze non saranno le uniche a rompere il silenzio delle strade e potremo unire di nuovo i nostri corpi in un abbraccio senza tempo, forse scopriremo che questo dolore ci sarà stato utile e pianteremo nuovi alberi. Nella vita ho imparato che ci sono sempre i buoni e i cattivi, in questa guerra, però, non ci saranno né vincitori né vinti ma solo la voglia di superare insieme la tempesta. Per tornare, come Ulisse con la sua Itaca, a respirare l’aria della nostra isola felice.

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