Le bare nelle chiese, nelle tende da campo e nei camion dell'Esercito hanno scosso tutto il Paese e hanno dato l'immagine più straziante dell'inferno che ha devastato Bergamo. La matematica asettica conta e snocciola i decessi, ma i numeri corrispondono a volti impressi, oltre che nel cuore di familiari, anche nelle menti dei medici e infermieri che hanno accompagnato quegli uomini nelle ultime ore di vita, in quei letti silenziosi che per troppi sono diventati gli altari del sacrificio. Abbiamo raggiunto per una testimonianza due medici di ospedali impegnati nella lotta al Coronavirus, due messinesi che lavorano a Bergamo da più di venti anni. Il dottor Mario Gulino, chirurgo ed endocrinologo, responsabile della Chirurgia d'urgenza dell'ospedale di Piario, Azienda Bergamo est, è un uomo di poche parole che con voce grave e molto pudore, pesa ogni sillaba ma vuole raccontare il suo impegno. In questo momento il suo ospedale si occupa solo del Covid-19? «Sì, siamo di fronte ad una situazione drammatica, rispondiamo quotidianamente alle richieste di persone che arrivano con insufficienza respiratoria, dando loro spazio totale. Abbiamo sovvertito tutta la routine, a vantaggio delle urgenze, con un coinvolgimento di tutti i medici, compreso il direttore sanitario . Io ho abbandonato la mia specializzazione, per seguire solo le patologie respiratorie». L'entità del dramma che si trova a fronteggiare forse qui da noi non è ancora ben compreso? «La situazione è catastrofica, pensi che nei piccoli paesi della Valle Seriana tutti hanno un amico o un parente deceduto, un congiunto interessato da patologia grave. Ma il fatto più intollerabile è che i pazienti che arrivano da noi e che vanno verso prognosi infausta, muoiono da soli, senza parenti, con l'unica presenza dei sanitari che si spogliano della propria professionalità per un attimo e mettono in campo la propria grande umanità». Cosa si sente di dire ai messinesi in queste ore delicate? «Raccomando loro di stare in casa, è l'unico modo per combattere sul serio il proliferare del virus, manco da 20 anni da Messina ma la porto sempre nel cuore, vedo foto della città con auto che circolano, ancora c'è troppa gente in giro, vuol dire che in tanti non hanno del tutto compreso la gravità della situazione. Quello che stiamo vivendo qui non lo auguro a nessuno, le dico solo che stiamo applicando il regime della medicina delle catastrofi e con questo ho detto tutto». Il dottor Giuseppe Grosso è un ginecologo, dirigente medico dell'ospedale Papa Giovanni XXIII e in questi giorni volontario nelle Coronavirus Unit, ci racconta con fervore il suo lavoro. Come si è riorganizzato il suo ospedale in relazione all'emergenza e come si presenta oggi? «L'ospedale è saturo. Possiamo fare solo servizio di contenimento. Solo qualche paziente può entrare, ma in due casi, se un malato guarisce o se muore, purtroppo. Siamo diventati un punto di riferimento in Lombardia per l'elevato numero di pazienti. Prima sono stati coinvolti i medici legati a queste patologie, come pneumologi, infettivologi, anestesisti, rianimatori, poi i volontari coronavirus come me, poi gli altri. Tantissimi i decessi soprattutto tra gli anziani, perché il sistema sanitario lombardo è potente e assiste molti pazienti che in altri contesti morirebbero. Questo virus si è scatenato pochissimo sui giovani e bambini. Il mio ospedale ora si presenta come un luogo senza rumori, nei corridoi non si sente niente, un deserto e i reparti sono chiusi a chiave». Che tasso di contagio registrate tra i medici? «Non pensiamo alla percentuale dell'8 % che si riferisce anche ai medici che sono a casa o in altri contesti, pensiamo ai reparti ormai coronavirus, dove medici contagiati sono al 30 % . Moltissimi medici sono diventati degenti. Nel mio reparto per ora sono in sei, compreso il primario; ma la situazione è gravissima, se crolla il muro dei medici crolla tutto l'edificio. Consideriamo che su 100 medici, 50 sono malati o infetti, 25 sono stremati e 25 che devono provvedere a tutto». Nel Paese si ha avuto la percezione netta della vostra tragedia attraverso le immagini di bare e cimiteri pieni. «Bisogna essere duri e comunicare esattamente quello che accade, il messaggio deve essere forte, non bisogna avere remore, se si vedesse la faccia di un uomo che non può respirare si capirebbe tutto, bisogna aprire gli occhi alle persone. Il segnale non deve essere soft. Abbiamo capito la guerra in Siria vedendo le foto della gente con le gambe spezzate, un'immagine cruda ma reale». Cosa hanno visto suoi occhi? «Non ci sono parole per descrivere quello ho visto e io ho visto molte cose nella vita, ho fatto anche volontariato in Africa, ma la sofferenza di questi giorni è indescrivibile e cambierà il mio modo di valutare le cose. La nostra generazione non ha vissuto la guerra e il dopo guerra e a maggior ragione i nostri figli, cresciuti nell'opulenza. Ho visto persone in fin di vita che non dicevano nessuna parola stavano in silenzio per non sprecare fiato o perchè impossibilitati dentro un casco. In certi momenti le parole non servono, ci sono sguardi che parlano da soli e implorano». Che appello si sente di fare? «Bisogna essere rigorosi e stare a casa, io da un mese per sicurezza non vedo i miei genitori anziani che sono saliti a Bergamo tempo fa per ragioni di salute; deve uscire solo chi è obbligato per lavoro, come il medico o il giornalista, ma gli altri no; se il signor Rossi fa la corsetta col cane vuol dire che non ha capito niente. I medici che vedono le persone che passeggiano o che sciano, si chiedono “ ma noi per chi stiamo lavorando, per chi stiamo rischiando la vita”? Dobbiamo agire e non solo parlare, non ci si perda in polemiche politiche , è il tempo del coraggio e della solidarietà».