«Lo confesso, fino a due settimane fa, anche io pensavo si stesse esagerando con le notizie proveniente dalla Cina. Anche io pensavo fosse quasi un normale virus influenzale. Ma ora a chi continua a sottovalutare, a chi continua a dire che si sta paralizzando il Paese per una “normale” influenza, rivolgerei un invito: venite qui in ospedale e capirete la gravità della situazione». Nicola Villari, 35 anni, è uno dei medici messinesi (ve ne sono tanti al Nord) impegnato sul fronte tra i più caldi della Lombardia. È anestesista rianimatore e lavora ormai da otto anni alle Cliniche ospedaliere Humanitas Gavezzoni, uno dei poli sanitari d'eccellenza di Bergamo, che in questi giorni è destinato quasi esclusivamente ad accogliere pazienti che hanno contratto il Covid-19. È qui che arrivano in gran parte i malati dalla provincia, in particolare dalla zona di Nembro e di Alzano Lombardo, tra i Comuni più colpiti della zona rossa. «Sono stato anche in missione in Africa - spiega Nicola - ma mai mi era capitato di vivere questa esperienza. Lì sapevo di dover fronteggiare malattie e miseria ma non c'era differenza tra il “dentro” e il “fuori” e, dunque, paradossalmente la consapevolezza era superiore. Qui c'è un mondo fuori e c'è quello che vivi quando entri in ospedale, in un clima irreale, che non so neppure definire». Come se fosse il set di un film di fantascienza. Ma la vita è reale, i casi che arrivano sono concreti, l'impegno dei medici e degli altri operatori sanitari è allo stremo: «Abbiamo raddoppiato i turni, da due settimane siamo tutti sotto pressione». Un collega di Villari, nella sua pagina Fb, ha scritto: «La guerra è letteralmente esplosa e le battaglie sono ininterrotte giorno e notte. Uno dopo l'altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt'altro che le complicazioni di un'influenza. Piantiamola di dire che è una brutta influenza. In questi due anni ho imparato che i bergamaschi non vengono in pronto soccorso per niente. Hanno seguito tutte le indicazioni date: dieci giorni a casa con la febbre senza uscire e rischiare di contagiare, ma ora non ce la fanno più. Non respirano abbastanza, hanno bisogno di ossigeno. Le terapie antivirali sono sperimentali su questo virus e impariamo giorno dopo giorno il suo comportamento». Anche Nicola ribadisce il concetto: «In queste due settimane i casi si sono via via raddoppiati, triplicati, 15-20 ricoveri al giorno, abbiamo per ora oltre 200 pazienti, al 70 per cento dei quali è stata diagnosticata polmonite da coronavirus e il 30 per cento presenta gli stessi sintomi Tutte le attività normali sono state sospese, ci dedichiamo solo alla ricezione di pazienti “positivi”. Abbiamo triplicato i posti della terapia intensiva ma non sono neppure sufficienti. Noi stiamo dando assistenza a tutti ma c'è un rischio concreto che in alcune strutture si debba fare una scelta tra un paziente ed un altro, è stato detto e scritto, è anche una leggenda metropolitana, però non è un rischio da sottovalutare. La Lombardia è in ginocchio. Io spero vivamente che da voi, anzi da noi, perché io sono nato e cresciuto in Sicilia e a Messina, la situazione non degeneri». La gestione dell'emergenza, come sistema Paese, ha lasciato alquanto a desiderare: «Sicuramente, ma oggi quello che conta è far capire che siamo di fronte a un pericolo vero, reale, che se non lo vedi non ci credi, e dobbiamo tutti comportarci con senso di responsabilità». La vita sociale e familiare per ora è “sospesa”: «Ho una figlia piccola e un altro figlio in arrivo, non sono giorni facili, stringiamo i denti. In ogni caso, sia per la sanità italiana, sia per le nostre abitudini, è una svolta epocale. Nulla sarà come prima».