La mafia cambia pelle, veste nuovi abiti, brama più sofisticati affari. Ma da sempre, in ogni sua manifestazione, assegna ai simboli un valore preminente, soprattutto per rendere iconica ed immediatamente riconoscibile la rappresentazione del potere.
E così i luoghi, di questa mafia così di quella del passato, assumono una rilevanza strategica, diventano sacrari evocativi persino nell’offrire rimandi al passato. Come quelli emersi dall’operazione “Nebrodi”, che ieri ha portato a 94 arresti.
Il ristorante “La Quercia” a Brolo, il negozio del barbiere Ivan Conti Tiguali a Tortorici, il chiosco di Sebastiano Bontempo in contrada Bozzarita-Filippello, sempre a Tortorici: tutto ciò che ruota attorno a questi luoghi, scrive il gip Salvatore Mastroeni, «non va e non può essere in alcun modo inteso come un incontrarsi convivialmente, quattro amici a godere del cibo e dell’amicizia stessa». No, questi sono luoghi della mafia. Simboli.
Il ristorante “La Quercia”. È eloquente la definizione per certi versi allegorica che del ristorante brolese fa il gip Mastroeni: «La Quercia, per la mafia di Tortorici, è la sala del consiglio di amministrazione della grande società imprenditoriale e di capitali, ma la comparativa modestia dei soggetti e del luogo non deve fuorviare, i profitti su cui gli indagati lavorano saranno degni di altra sede e grattacieli, perché si arriva ai milioni di euro, ai finanziamenti europei, in qualche modo a Bruxelles».
Non solo. La Quercia rievoca altre e più cruente pagine della storia criminale nebroidea. Il tradizionale punto di incontro per la famiglia tortoriciana negli anni ’80 e ’90: quel ristorante «era divenuto una base operativa e logistica per i tortoriciani, all’epoca facenti capo a Cesare Bontempo Scavo. In quel posto si chiedeva clemenza e venivano emesse sentenze spietate di morte dai fratelli Cesare e Vincenzo Bontempo Scavo, come da sentenze in giudicato in atti».
Comune denominatore tra passato e presente è il gestore di fatto del ristorante, Giuseppe Condipodero Marchetta, il cui «cambio di schieramento» è solo «apparente», scrive il gip, «in realtà i batanesi sono il volto vivo, o almeno più efficace sul territorio, della mafia tortoriciana, in continuità e non già in discontinuità, pur se le strade non sempre sono state identiche, con la mafia dei Bontempo». Anche perché la certezza è una: «il nemico è lo Stato, i gruppi, pur distinti, sono vicini, con travasi e collaborazioni reciproche».
La cena a base di aragoste. Sono diversi gli incontri registrati, filmati e sottoposti a osservazione nel ristorante gestito da Condipodero Marchetta, in assidui rapporti con Salvatore “Salvuccio” Bontempo. Quello ritenuto più rilevante si tiene il 1° luglio 2016. Particolarmente indicativa, per il giudice, «l’organizzazione di un appuntamento con una particolare cautela nelle conversazioni». A quella cena, infatti, serve che partecipi Giovanni Pruiti, ma nell’organizzare l’incontro è necessario che la sua presenza non venga svelata. Così diventa centrale la figura di Giuseppe Calà Campana, uomo di fiducia di Pruiti e, di fatto, intermediario tra “Salvuccio” Bontempo e lo stesso Pruiti. A Condipodero Marchetta il compito di “allestire” il luogo del summit e il relativo banchetto, a base di ostriche, frutti di mare, aragoste, astice e spigola. Alla cena del primo luglio prendono dunque parte lo stesso Condipodero Marchetta, Pruiti, Calà Campana, Salvatore e Sebastiano Bontempo, Salvatore Costanzo Zammataro e Andrea Caputo. Una vera e propria «riunione mafiosa», scrive il gip Mastroeni, «la cena era un’occasione per consentire a Sebastiano “biondino” Bontempo ed al cognato Giovanni Pruiti di interloquire riservatamente».
E sono proprio «l’eccesso di cautele, le conversazioni appartate, i nomi non detti a tradire gli associati» e il reale scopo della cena. Tant’è che nei giorni successivi il locale, «incongruamente per un comune ristorante», viene sottoposto ad una «attività capillare di bonifica», per portare allo scoperto microspie e telecamere. Ad occuparsene, come testimoniato da immagini registrate, l’“esperto” Andrea Caputo (presente a quella cena), che viene immortalato mentre insieme a Condipodero Marchetta e, successivamente, a Salvatore Bontempo, smonta impianti per intercettazioni ambientali e va in cerca di telecamere dentro e fuori il ristorante. «Il dato è grave – afferma il gip – ed evidenzia una associazione che si guarda e cerca di evitare le indagini».
La barberia di Conti Taguali. Il negozio del barbiere è uno di quei luoghi che appartengono alla iconografia mafiosa “tradizionale”. Non fa eccezione l’operazione “Mafia dei Nebrodi”. Alla barberia “New Look” di Ivan Conti Taguali, a Tortorici, «si verificano incontri palesemente svincolati da tagli di capelli e barbe», scrive il gip.
E il titolare «è operativo nella triangolazione dei contatti, partecipe a discorsi associativi come quelli relativi alle microspie, in rapporto significativo con i capi» e per di più risulta in possesso di una pistola con matricola abrasa, una Beretta calibro 7,65 che teneva nascosta nel muro in pietra del ripostiglio adibito a legnaia di casa sua, «una pistola non certamente necessaria ad un barbiere pur se con amicizie criticabili».
Conti Taguali «fungeva da mediatore di contatti tra Vincenzo Galati Giordano ed altri soggetti, come il “biondino” Sebastiano Bontempo. Diversi, anche in questo caso, gli incontri registrati dentro la barberia e nei pressi del negozio stesso. E come avvenuto nel ristorante “La Quercia”, anche nella barberia si procede ad una azione di bonifica. «Qua io ho smontato tutte cose – rivela il 22 dicembre 2016 Conti Tagguali a Sebastiano Bontempo il “uappo” –, comprese le prese...», con il “uappo” che serafico replica: «Tu devi fare invece come faccio io, io non cerco niente».
Il chiosco. Altro luogo simbolo è il chiosco di contrada Bozzarita-Filippello, a Tortorici. Chiosco di panini e bibite del quale titolare effettivo risulta essere Sebastiano “uappo” Bontempo, attraverso l’associazione “Ritrovo dei Nebrodi”, poi trasformata in “Circolo Anspi Ritrovo dei Nebrodi”, di cui soci sono i fratelli Sebastiano e Giuseppe Bontempo, Rosario e Salvatore Galati Massaro. Nel novembre 2015 era stato proprio il “uappo” a denunciare un incendio doloso ai danni del chiosco. E sarà lui, in seguito, ad occuparsi della ristrutturazione e di tutte le fasi che porteranno alla sua riapertura, della quale viene fatta più volte ampia “pubblicità”.
C’è un motivo, tutt’altro che secondario. Certo, ha rilevanza il fatto che «le telecamere installate in prossimità del chiosco consentivano di accertare che questo luogo era oggetto di incontri tra gli esponenti dell’associazione mafiosa dei batanesi, presso il quale essi potevano discutere al riparo dal rischio di intercettazioni».
Ma è significativo quanto si dicono il 3 giugno 2017 Sebastiano Bontempo e Simone Galati Massaro: «Questo chiosco dobbiamo rifarlo – sentenzia il “uappo” – (...) Tu bruci il chiosco e io te lo vengo a fare... un’altra volta... perché sono più “sperto” di te... il senso è questo... il senso del chiosco...». Il chiosco, scrive il gip Mastroeni, «come simbolo dell’associazione e della vitalità e del potere del capo». Al quale, quando fuori dal locale sta per scatenarsi una rissa, basta palesarsi sull’uscio, senza dire una parola, perché tutto venga sedato. «È uscito u’ Signuruzzo», dirà Giuseppe Costanzo Zammataro nel descrivere la scena. “U’ Signuruzzo”, il “uappo”. Il capo.
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