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Inchiesta "Alfano ter", il pm chiede l'archiviazione

Beppe Alfano

Di sicuro c'è che nel gennaio del 1993, il povero Beppe Alfano, quella sera di giorno 8, fu ucciso sotto casa alle dieci in via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto. Per il resto, anche se la giustizia ha bollato in via definitiva un mandante e un killer, il boss Giuseppe Gullotti e il camionista Antonino Merlino, aleggiano fumosamente una miriade di misteri, contraddizioni e depistaggi su questa storia. Che rimbalzano in maniera clamorosa e per certi versi anche molto inedita nella lunga e complessa richiesta di archiviazione dell'ultima inchiesta aperta in ordine di tempo, il cosiddetto “Alfano ter”, su questa esecuzione decretata da Cosa nostra barcellonese.

Per un cronista senza tesserino (glielo diedero dopo la morte), che con le sue continue indagini giornalistiche dava assai fastidio alla mafia tirrenica. Che aveva scritto e avrebbe potuto ancora scrivere.

Un atto siglato dal procuratore aggiunto di Messina Vito Di Giorgio, che lo ha redatto, e controfirmato dal capo dell'ufficio, il procuratore Maurizio De Lucia. Sessanta pagine che però gettano una luce sinistra, molto sinistra, su alcuni pezzi dello Stato che in quegli anni vivevano e lavoravano a Barcellona, oppure si trovarono a... passare spinti dagli eventi.

Adesso sarà il gip a dover valutare questa richiesta di archiviazione, per un fascicolo che venne aperto come notizia di reato nel 2003, dopo le dichiarazioni della figlia di Alfano, Sonia, pubblicate sulla “Gazzetta” il 7 gennaio: parlava di gravi depistaggi sui veri mandanti. Da allora, in precedenza già due volte la Procura aveva richiesto l'archiviazione, ma il legale della famiglia Alfano, l'avvocato Fabio Repici, si era sempre opposto sollecitando nuovi accertamenti, che per due volte il gip aveva in parte accolto. Vedremo adesso cosa accadrà.

Ma partiamo dalla fine, dall'ultima pagina. Nell'ottobre del 2015 dopo 22 anni c'erano agli atti due nuovi indagati per quella esecuzione spartiacque. Ma - scrive ora Di Giorgio -, «... anche la pista investigativa che si è concentrata su Genovese Stefano e Condipodero Basilio si è dimostrata poco concreta in termini di rilevanza probatoria; al di là delle dichiarazioni rese da D'Amico Carmelo, nessun altro elemento di riscontro è stato acquisito a sostegno del coinvolgimento dei due indagati nel fatto di sangue». Quindi per Stefano Genovese e Basilio Condipodero, indicati come i killer dal pentito Carmelo D'Amico - il quale ha detto tra l'altro a chiare lettere che con questo omicidio Antonino Merlino non c'entra proprio nulla -, la storia per la Procura finisce qui.

Ma c'è solo questo in 60 pagine scritte da un magistrato per spiegare il contesto? No, affatto. C'è dell'altro di una storia molto ingarbugliata e scandalosa. Anche con una richiesta di archiviazione si possono raccontare delle non improvvisate verità. E forse ricercare quella definitiva. Per esempio questo: «... In particolare, gli accertamenti finalizzati a dimostrare un collegamento tra l'omicidio del giornalista Giuseppe Alfano e la latitanza di Nitto Santapaola nel barcellonese hanno messo in luce punti di contatto tra i due aspetti (effettivamente l'Alfano stava compiendo indagini giornalistiche su detta latitanza). Tuttavia, non è possibile affermare con certezza che quelle indagini siano state la causa della sua morte; in ogni caso, anche a voler dare per accertato tale assunto, non si dispone di alcun elemento per individuare gli autori del fatto».

Eppure le 60 pagine sono piene di riferimenti proprio all'ossessione di Alfano tra la fine del 1992 e gli inizi del 1993, ovvero che Nitto Santapaola a Barcellona c'era eccome, servito e riverito come dimostrò poi la famigerata intercettazione dei carabinieri Ros di pochi mesi dopo, dell'aprile 1993, negli uffici della ditta di trasporti di Domenico Orifici. Di Santapaola a Barcellona ha parlato anche Luigi Ilardo, raccontando tutto al colonnello Michele Riccio - scrive Di Giorgio -, che fu sentito nel maggio del 2003. Il pentito catanese Maurizio Avola sentito sempre nell'ambito dell'inchiesta, nel 1993, disse di essere andato tre volte a trovare Santapaola a Barcellona «... nella metà ed alla fine del 1991, ed il 27 febbraio del 1993. Ogni volta aveva preso contatti con Gullotti Giuseppe, che incontrava nei pressi del Tribunale di Messina, con cui si avviava - su macchine separate -, in una villetta a schiera dove stava Santapaola, abitazione ubicata fuori dal centro di Barcellona».

E proprio su questa intercettazione del Ros e sull'ormai tristemente famoso inseguimento di un ragazzo, Fortunato Imbesi, scambiato dai carabinieri capeggiati da “Ultimo” - fu la versione ufficiale -, addirittura per il boss Pietro Aglieri, a Terme Vigliatore, un pomeriggio, c'è molto altro tra queste carte, ora nero su bianco in un atto della Procura: un ex maresciallo dei Ros, Giuseppe Scibilia, la vera memoria storica degli ultimi quarant'anni di mafia a Messina e dintorni, che smentisce clamorosamente i suoi capi su come andarono le cose. Sono le date a “parlare”. Il 5 aprile del 1993 il maresciallo Scibilia, che in quella fase comandava il Ros di Messina, ebbe l'assoluta certezza che Santapaola si nascondesse a Barcellona ascoltando la sua voce in quella intercettazione. E chiamò il suo superiore, colonnello Mario Mori, per avvertirlo. Il 6 aprile, il giorno dopo, praticamente tutti gli uomini all'epoca più operativi del Ros erano a Barcellona. E non cercavano certo Pietro Aglieri.

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