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Le esecuzioni di Cosa nostra

Aurelio Micale

Gli omicidi di Cosa nostra barcellonese progettati a tavolino ed eseguiti senza alcuna pietà. E lui Aurelio Micale, il nuovo pentito, che era sempre di supporto, aspettava i killer dopo l’esecuzione o rubava le auto necessarie. C’è ancora tanto altro nei verbali che il collaboratore ha riempito in questi mesi davanti al procuratore aggiunto Vito Di Giorgio e ai sostituti della Dda Fabrizio Monaco e Francesco Massara. Ecco alcuni passaggi su altre esecuzioni, di cui si sono occupati in questi mesi i magistrati e i carabinieri del Ros.

Tramontana voleva uccidere Bisognano
Mimmo Tramontana - ha raccontato Micale - era un associato di spessore, comandava nella zona di Terme Vigliatore ed era rispettato e temuto dagli altri associati. Fu ucciso perché, a sua volta, intendeva eliminare Carmelo Bisognano. Tra quest’ultimo e Tramontana vi erano, infatti, dei dissapori per questioni concernenti estorsioni. Tramontana, inoltre, sosteneva che Bisognano era un confidente delle Forze dell’Ordine anche a causa di una denuncia che aveva sporto. Bisognano, in quel periodo, era soggetto di spessore dell’associazione mafiosa, in particolare, aveva specifiche competenze in materia di appalti pubblici. Seppi da Calderone Antonino che Tramontana aveva provato ad uccidere Bisognano ma non vi era riuscito poiché era caduto con la moto. Tramontana intendeva uccidere Bisognano anche contro il volere dell’associazione mafiosa, che non ne avrebbe mai autorizzato l’eliminazione proprio per la sua importanza nel settore dell'aggiudicazione degli appalti pubblici... un giorno - prosegue Micale -, mentre mi trovavo intento ad effettuare delle opere murarie nella stalla di Calderone Antonino, questi mi disse che l’associazione mafiosa aveva deciso di eliminare Tramontana. Dopo la fase della progettazione Micale racconta che a bordo della Lancia Dedra rubata scelta per l’esecuzione c’era il gruppo di fuoco, che vide allontanarsi per l’appostamento finale: Calderone Antonino alla guida, D’Amico Carmelo seduto lato passeggero, Pietro Mazzagatti e Angelo Caliri nel sedile posteriore. I quattro - prosegue il pentito -, si recarono in una zona di Ponente, lungo il litorale compreso tra Milazzo e Barcellona, in un luogo in cui si appartavano le coppiette per non dare nell'occhio; costoro ritenevano prevedibile che il Tramontana sarebbe passato da quella strada per fare ritorno a Terme Vigliatore presso la sua abitazione... mentre io, Carmelo Mazza e Francesco D'Amico facemmo alcuni appostamenti a Milazzo; lì notammo Tramontana seduto ai tavoli del Bar Washington di Milazzo; in particolare, fu Francesco D’Amico a riferire tale circostanza al fratello Carmelo; anche io e Mazza Carmelo eravamo presenti... poi qualche giorno dopo - prosegue -, commentando con D’Amico Carmelo e Calderone Antonino l'omicidio di Tramontana, ebbi modo di apprendere alcuni dettagli sull'esecuzione. D’Amico Carmelo, in particolare, disse che si erano accostati con la Lancia Dedra all’Audi TT a bordo della quale si trovava il Tramontana, ed egli aveva sparato due colpi di fucile. A quel punto, l'Audi TT era andata a sbattere contro un muro ed aveva arrestato la marcia. D’Amico Carmelo era sceso dalla vettura ed aveva sparato al Tramontana con la pistola cal. 9X21; dalla macchina scesero pure Pietro Mazzagatti e Angelo Caliri. Sicuramente uno dei due sparò ma non ricordo chi. Calderone Antonino rimase alla guida dell'autovettura.

L’omicidio di Giovanni Catalfamo
Secondo quanto racconta Micale, che eseguì gli appostamenti preliminari su ordine di Carmelo D’Amico, la causale dell’omicidio è duplice: fu eliminato perché era dedito all’usura, attività non tollerata dall’associazione mafiosa; inoltre, faceva delle truffe, nel senso che acquistava merce e materiali da alcuni imprenditori senza pagare il corrispettivo in denaro; detti imprenditori erano protetti dall'associazione mafiosa, nel senso che pagavano il “pizzo”, e quindi si lamentavano del comportamento del Catalfamo. L’esecuzione andò diversamente da come era stata programmata: D’Amico Carmelo e Calderone Antonino - racconta Micale - non riuscirono a raggiungere l'auto a bordo della quale si trovava Catalfamo Giovanni, una Fiat 500 di colore verdina, in quanto arrivarono in leggero ritardo sul posto concordato inizialmente. La vittima raggiunse la propria abitazione e, attraverso il telecomando a distanza, riuscì ad aprire il cancello che delimitava l'ingresso del relativo condominio. D’Amico Carmelo e Calderone Antonino inseguirono l'auto del Catalfamo all’interno del complesso edilizio. D’Amico Carmelo, quindi, sparò diversi colpi che colpirono la vettura del Catalfamo, che andò a sbattere contro un muretto o una panchina. Il Catalfamo scese dal mezzo e D’Amico Carmelo lo finì a colpi di pistola. Forse la moto dei killer urtò contro l'auto del Catalfamo.

La morte di Nunziato Mazzù
Mazzù era un associato, era cognato di Sam Di Salvo nel senso che lui e Di Salvo avevano sposato le due sorelle di Salvatore Ofria e Domenico Ofria. Il Mazzù - racconta il pentito -, fu ucciso per diversi motivi: spacciava droga, si lamentava spesso con Carmelo D’Amico perché, a suo dire, non veniva mantenuto economicamente dall'associazione, inoltre, come ho detto, era imputato per alcuni omicidi e si temeva che potesse divenire collaboratore di giustizia nel caso di condanna. Queste motivazioni mi furono riferite sia da Calderone Antonino che da Carmelo D’Amico. La progettazione: ... nel corso di quell’incontro, Calabrese Tindaro si mostrò d'accordo con Carmelo D’Amico; si stabilì che il Calabrese avrebbe procurato una macchina rubata da utilizzare per l’omicidio del Mazzù e che il gruppo di fuoco sarebbe stato composto da tre persone: Calabrese Tindaro, Chiofalo Domenico e un terzo soggetto, che sarebbe stato individuato dallo stesso Calabrese. Micale poi si appostò alla stazione ferroviaria di Barcellona, perché Mazzù non guidava e per fare rientro a Oliveri adoperava spesso il treno. L’esecuzione: fu Chiofalo Domenico a raccontarmi i dettagli di questo omicidio; in particolare, mi disse che avevano fatto parte del gruppo di fuoco, oltre a lui, anche Calabrese Tindaro e Trifirò Carmelo, detto “carabbedda”. Il Mazzù fu ucciso mentre scendeva dal lato passeggero di un’autovettura Citroen C3 cabrio di colore arancione, a bordo della quale si trovava anche una donna che era seduta sul sedile posteriore; alla guida vi era un altro soggetto di sesso maschile, che scappò a piedi al momento dell'agguato. Tindaro Calabrese - prosegue il pentito -, armato di fucile, e Chiofalo Domenico, armato di una pistola, credo una 38. Calabrese fece fuoco per primo ferendo Mazzù, il quale ebbe il tempo di esclamare “bastardi...bastardi”. Anche Chiofalo fece fuoco. Entrambi erano travisati, come credo anche il Trifirò, che rimase alla guida dell’autovettura. Per come mi disse lo stesso Chiofalo, l’agguato avvenne nei pressi della stazione ferroviaria di Oliveri, nelle cui vicinanze abitava il Mazzù.

La fine di Fortunato Ficarra “nanittu”
Le motivazioni di questa esecuzione sono agghiaccianti. Racconta Micale che: Ficarra “nanittu” era dedito all’abuso di alcool, abitava a Santa Lucia del Mela, nelle case popolari. Fu ucciso perché era solito ubriacarsi nei due bar di Mazzagatti Pietro Nicola, ubicati a breve distanza l’uno dall'altro a Santa Lucia del Mela; in buona sostanza, dava fastidio ai clienti. Fu Mazzagatti Pietro a chiedere a D’Amico Carmelo di eliminare il Ficarra, appunto perché dava fastidio nei suoi locali. Per il compimento dell'omicidio, D’Amico Carmelo chiese l'autorizzazione ai vertici dell'associazione mafiosa barcellonese, non so nella persona di chi, credo o Sam Di Salvo o Rao Giovanni. Sono certo che D’Amico Carmelo disse che l’omicidio era stato autorizzato; quindi, iniziammo a progettare l’uccisione del Ficarra. L’esecuzione: ... in particolare, appresi che la moto utilizzata per l'omicidio era guidata da Calderone Antonino mentre D’Amico Carmelo si trovava nella parte posteriore del sedile. D’Amico Carmelo era entrato nel bar del Mazzagatti ed aveva fatto fuoco contro Ficarra, uccidendolo.

L’uccisione di Carmelo De Pasquale
De Pasquale - racconta Micale -, era organico alla associazione ed era vicino ai vecchi. Aveva rapporti stretti con Porcino Angelo, detto formaggino, e con Foti Carmelo Vito, di cui era cognato. Foti è soprannominato Corleone. De Pasquale, nonostante associato, faceva uso di stupefacente. Con Carmelo D’Amico, De Pasquale non aveva un buon rapporto. D’Amico rimproverava a De Pasquale di ubriacarsi e di fare uso di stupefacente. Chiofalo Domenico riferì a D’Amico Carmelo di avere visto, nel gennaio 2009, De Pasquale Carmelo vicino all’abitazione della compagna di D'Amico, tale Neri Lina; in quella circostanza, il De Pasquale era camuffato con degli occhiali ed un cappello, ed era insieme ad un altro soggetto, anche egli camuffato, che non era riuscito a riconoscere, ma che poteva essere o Alessandro dentino (il cognome dovrebbe essere Genovese) o Gitto Nino di Merì. I due erano a bordo di una Y 10 bianca... D’Amico Carmelo indisse una riunione alla quale prendemmo parte io, D’Amico Francesco, Munafò Franco, lo stesso Chiofalo Domenico e Calderone Antonino, il grande, anno 75... D’Amico disse di tenere gli occhi aperti in quanto De Pasquale poteva attentare alla nostra vita; ci disse anche che il De Pasquale doveva essere ucciso; nessuno dei presenti si oppose a questa decisione. L’esecuzione: ... quindi, sull'auto rubata si disposero nel seguente modo: Giambò alla guida, D’Amico Carmelo accanto, Chiofalo Domenico e Calderone Antonino sui sedili posteriori. D’Amico Carmelo aveva un fucile calibro 12 a canne mozze e una pistola cal. 38 o una 357. Calderone Antonino aveva una 357. Domenico Chiofalo una 7,65. Una di queste armi la aveva portata sul posto Carmelo Giambò. A me e D’Amico Francesco fu dato il compito di recuperare i killer a Spinesante, in un posto ubicato proprio dietro casa di Giambò Carmelo. Io ero con una Ford Focus, mentre D'Amico Francesco era con una Fiat Punto.

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