Corruzione in atti giudiziari in cambio di denaro. Cento milioni di lire la prima volta, una tranche di cinquantamila euro la seconda. Per favorire Cosa nostra barcellonese. Sono veramente devastanti le accuse formalizzate dalla Procura di Reggio Calabria a carico del magistrato Olindo Canali, originario di Monza, per lungo tempo pm a Barcellona Pozzo di Gotto e fulcro di tante indagini antimafia, poi giudice a Milano. L’atto “blindato” di conclusione delle indagini preliminari, siglato dall’aggiunto Gaetano Paci e dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, è stato notificato al magistrato e al suo grande accusatore in questa storia, l’ex boss barcellonese e capo dell’ala militare di Cosa nostra, oggi pentito, Carmelo D’Amico. Che non più tardi di due anni fa mentre verbalizzava le sue dichiarazioni o deponeva ai processi, era il 2016, si autoaccusò d’essere il corruttore. E disse di aver pagato due magistrati per far aggiustare un suo processo, in cui rischiava l’ergastolo. Dichiarazioni che all’epoca furono subito trasmesse dalla Procura di Messina ai colleghi reggini, per la competenza ex art. 11 c.p.p.. E oggi, a distanza di due anni, c’è di nuovo traccia di quelle dichiarazioni. Dalle carte emerge anche il concorso nel reato come intermediario, e il «rapporto di assidua frequentazione» che Canali aveva con il medico Salvatore Rugolo, specializzato nel settore lavoro e parecchio conosciuto, nonché figlio di “don Ciccino” Rugolo, vecchio capomafia barcellonese, e cognato del boss - per lungo tempo capo della “famiglia” barcellonese - Giuseppe Gullotti, che sposò sua sorella Venera. Salvatore Rugolo è morto a 54 anni in uno “strano” incidente d’auto nell'ottobre del 2008 a bordo della sua jeep nuova di zecca lungo la Provinciale per Tripi. Il suo nome era finito nell'informativa “Tzunami” proprio per la sua frequentazione con Canali. Il quadro tracciato dai magistrati reggini nei due capi d’imputazione è molto dettagliato e scandisce due episodi temporali precisi, sempre relativi all’attività dell’ex pm. La prima ipotesi di corruzione in atti giudiziari - tra il 1997 e il 14 aprile 2000 -, riguarda l’attività che Canali svolse in relazione al primo processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 settembre 1993. Un caso in cui lavorò come “applicato” alla Procura di Messina. In quella fase storica erano accusati dell’esecuzione Carmelo D’Amico e Salvatore Micale. Secondo quanto scrive l’aggiunto Paci, Canali avrebbe «... accettato per sé la promessa e quindi ricevuto la somma di denaro di cento milioni di lire al fine di compiere atti contrari ai propri doveri d’ufficio nell’ambito del suddetto procedimento». E c’è un passaggio ancora più preciso nel capo d’imputazione, perché la somma sarebbe stata «consegnata in due distinte occasioni». Sono quattro le condotte individuate dalla Procura di Reggio: il boss D’Amico tramite Rugolo avrebbe indotto la moglie di una delle vittime del triplice omicidio a ritrattare al processo d’assise, nel 1998, quanto aveva dichiarato nel corso delle indagini, e cioé di aver riconosciuto proprio il boss D’Amico durante l’esecuzione tra i killer; l’ex pm Canali non avrebbe proposto entro i termini di scadenza (3 aprile 2000) l’atto di appello contro la sentenza assolutoria di primo grado per D’Amico e Micale; avrebbe depositato l’atto d’impugnazione il 7 aprile 2000 nonostante vi avesse apposto la data di effettiva scadenza del 3 aprile 2000, e avrebbe poi rinunziato in data 14 aprile 2000 all’impugnazione “per errore di calcolo”; infine Canali avrebbe omesso di avvertire dei vari passaggi l’allora titolare del procedimento, l’ex sostituto della Dda di Messina Gianclaudio Mango, e l’allora capo della Procura, Luigi Croce. L’altro caso di corruzione in atti giudiziari contestato - tra il 2008 e il 2009 -, in concorso con Rugolo, D’Amico, e il boss Gullotti, vede al centro il maxiprocesso “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Sempre secondo il capo d’imputazione l’ex pm Canali avrebbe «... accettato per sé la promessa della consegna di denaro di trecentomila euro, della quale riceveva una prima parte di cinquantamila euro», sempre da D’Amico. Per fare cosa? In sostanza per cercare di “ammorbidire” la posizione del boss Gullotti scrivendo quel famigerato memoriale che “piombò” letteralmente in aula durante il maxiprocesso “Mare Nostrum”. Memoriale in cui esprimeva forti dubbi sulla colpevolezza di Gullotti per la morte di Alfano, e in cui scriveva che occorreva “chiedere ed ottenere la revisione della sua condanna”.