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Messina che c’era, Messina che non c’è: la città invisibile di Michele Ainis

Messina che c’era Messina che non c’è la città invisibile di Michele Ainis

A Michele Ainis, costituzionalista di valore, messinese doc, editorialista, autore di numerosi saggi ma già tentato (nel 2012, con “Doppio riflesso”, Rizzoli) dalla narrativa, col secondo romanzo, “Risa” (La nave di Teseo) è riuscita un’operazione molto interessante. Letterariamente, e quindi per tutti, ma segnatamente per coloro che vivono nello scenario del romanzo: Messina, qui e oggi. Al prof. Ainis – che a Messina incontrerà i lettori il 20 aprile, al Rettorato – è riuscita una cosa che molti di noi tentano con molta fatica: mettere assieme questo luogo quotidiano, con le sue asprezze e le sue prosaicità (le buche il traffico i cassonetti il caos), e l’orizzonte favoloso che comunque cela in sé. Quello che ci sorprende con la straziante bellezza d’un transito di nuvole sullo Stretto. Con un tramonto aranciato a Faro. Col silenzio improvviso di certe stradine ignote.

Con le favole, i miti, le leggende (e le storie della Storia, talvolta) che ci vengono a trovare sotto forma di racconti, memorie familiari, scoperte. E questa città così doppia – così favolosa e ammantata di bellezza eppure così banale e talora misera; così erede di splendori e così spenta – , talmente doppia da avere davvero un doppio mitico, la città sommersa di Risa, e da risultare doppia durante il prodigio della Fata Morgana sullo Stretto; Messina distrutta e ricostruita, ma forse non per intero, non per davvero; questa città che, per quelli di noi che sono andati via ma non possono fare a meno di tornare (che le biografie meridionali sono tessute di fitti andirivieni, di partenze e ritorni), è assieme consolazione e delusione, approdo a cui tendere e trappola da cui fuggire, è la vera, grande protagonista del romanzo, che comincia proprio quando l’altro protagonista, Diego, vi rimette piede dopo una lunga assenza, cercando il fratello Jacopo. Eppure Diego sprofonda in una realtà sempre più cedevole e allucinata, in cui pezzi interi di città – caseggiati, chiese, palazzi – spariscono, come inghiottiti dal nulla, e nessuno sembra accorgersene.

Ci sono i miti, i paesaggi urbani e non, la storia di Messina: sembrerebbe un grande atto d'amore per la sua città natale, se non fosse invece che tutto ciò ne compone un ritratto ambiguo, inquietante. È la forma del suo amore, è un modo letterario di raccontare l'ambiguità che lega alla loro terra, sempre, i siciliani, i meridionali che oscillano continuamente tra partenze e ritorni?

«Preferirei avvalermi della… facoltà di non rispondere, perché questa domanda tocca una sfera molto personale, e perché le intenzioni dell’autore non sono mai importanti, conta il testo, conta quello che ci trovano i lettori. Dopotutto un libro è come un figlio: tu lo concepisci immaginando di farne un astronauta, e lui magari diventa palombaro. Insomma i libri, come i figli, se ne vanno per il mondo con le loro gambe, sicché l’autore perde ogni controllo, quando li ha generati. In questo caso l’autore è un messinese, dunque l’ambientazione su Messina non può essere casuale. Ma del resto ogni scrittore sa raccontare solo ciò che conosce bene: “Madame Bovary c’est moi”, diceva Flaubert. Ecco, Messina è la mia Madame Bovary, è come una donna amata e mai del tutto posseduta. Però Messina, in Risa, è anche una metafora di ciò che abbiamo perso, noi tutti, non soltanto noi siciliani».

La memoria è un tema cardinale del romanzo. Antiproustianamente: non come riappropriazione e ritorno, ma come esclusione e alienazione. La memoria che «invece di aggiungere, sottrae». Eppure è tutto quello che abbiamo (anche se una delle ricorrenti accuse che si fanno ai messinesi del dopo terremoto è di “non avere memoria di sé”). Diego ha continuamente a che fare coi ricordi, col farsi del ricordi, coi ricordi non suoi. Ma ricordare non lo salva.

Cos'è, dunque, la memoria, e perché non ci può salvare?

«La memoria è un inganno. Se ci si riflette, il passato è di gran lunga più misterioso del futuro. Ne vengono a galla scampoli, talvolta dettagli senza significato. E magari non ricordiamo più nulla d’una giornata felice, o di una notte infelice. Come non sappiamo nulla del tempo dell’infanzia, salvo, forse, qualche immagine che ci visita in sogno. Ecco, la memoria è fatta della stessa pasta di cui sono fatti i sogni. E anche la memoria di Messina, dei messinesi, è un sogno che evapora al mattino. Anche perché quando apri gli occhi su questa città non ci trovi niente di ciò che fu in passato, i terremoti ne hanno fatto tabula rasa. E questo incide, ahimè, sul carattere dei messinesi, sul loro modo di stare in questo mondo. A Messina le architetture più antiche risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, non c’è modo di confrontarsi con la storia cittadina. Ed è una privazione, anzi una menomazione».

Il terremoto (quello del 1908 ma non soltanto) attraversa – scuote – tutto il romanzo. Un terremoto continuamente menzionato e ricordato, eppure anche la principale causa di quella strana specie di oblio, di acquiescenza che Diego riconosce nei suoi ex concittadini. Ancora in fondo è così, per Messina, come se non si fosse mai ripresa da quella enorme cesura della Storia. E c'è poi un «terremoto intimo», che è quello che piano piano si trasferisce nella mente e nel corpo di Diego.

Che metafora è, per Lei, il terremoto? Possiamo ancora invocarlo, noi meridionali, per l'ignavia e la rassegnazione che sembrano a volte tratti distintivi di queste terre?

«Per Messina il terremoto è stato come una spugna sulla lavagna della storia, ne abbiamo già parlato. Però c’è anche un’altra dimensione, che Risa cerca di mettere a fuoco. C’è un terremoto interiore, tutti prima o poi ne abbiamo fatto l’esperienza. È la Linea d’ombra di cui ha scritto Conrad, la temperie esistenziale in cui si decide di te stesso, di ciò che sei davvero. Se Messina è metafora del mondo, il terremoto è metafora dell’uomo».

Le ascendenze letterarie sono ghiottissime: Buzzati per l'atmosfera sempre più irreale ma realisticamente raccontata, il Calvino delle Città invisibili per la narrazione di questo luogo, Messina, sfuggente e caleidoscopico, montato e rimontato continuamente dalla memoria, costruito e decostruito dal sentimento. Ma anche la nostra “corda pazza”, e l'assurdo e gli scambi d'identità di Pirandello. Quali sono per lei gli autori, o le costruzioni narrative di riferimento?

«Mi fa molto piacere che lei citi Le città invisibili, è il romanzo-non romanzo che mi accompagna da quando ero ragazzo. C’è una levità, e una qualità della pagina, che dopo Calvino nessuno ha più saputo riprodurre. Nemmeno lui, del resto. Forse ogni scrittore, anche il più prolifico, è scrittore d’un solo libro. Nel mio caso questo libro è Risa, credo. E se Risa fa scattare qualche remota assonanza con le Città invisibili, allora non posso che esserne fiero. Siamo tutti nani sulle spalle dei giganti. Quanto alla struttura del romanzo, alle sue ascendenze, qualche giorno fa c’è stata una presentazione a Roma, con Ninni Bruschetta che ne ha letto alcuni brani e un critico letterario, Giuseppe Leonelli. Lui diceva che in Risa l’irreale diventa reale, con un registro narrativo che non usa nessuno, perché nessuno lo sa usare. Non so se è vero, ma è vero che Risa nasce da questa specifica intenzione».

La sua lingua è molto raffinata, con qua e là autentici tesori lessicali (flavescenti, lionato, verzure, scombuiare). Che pensa della lingua d'oggi, addirittura del ritorno al pittogramma con emoji ed emoticon? E della letteratura che non si pone il problema della lingua, ma solo della comunicazione?

«Ne penso tutto il male possibile. Norberto Bobbio, in età ormai avanzata, diceva: “Non leggo più, leggiucchio”. Succede anche a me, e non solo per colpa degli anni che mi trovo sul groppone. Anche se è vero, quando il futuro che hai davanti è più breve del passato che hai trascorso dai più valore al tempo, non lo sprechi con persone e occupazioni insignificanti. Vale pure per i libri. Io ho un mio metodo: li apro a caso, per misurarne il lessico, il linguaggio, e poi il ritmo delle storie che vi sono raccontate. E per lo più non li comincio, oppure li abbandono dopo poche pagine. Perché la prosa in uso, anche da parte di scrittori di successo, è sciatta, povera. Uno specchio dei tempi che stiamo attraversando, evidentemente. Ma la letteratura è fatta di parole, e le parole vanno prese sul serio»

Infine, Messina e il suo doppio, Risa. Diego e il suo doppio, il fratello Jacopo. Il nostro luogo di partenza e il suo doppio, che è il luogo a cui torniamo, o quello che ci portiamo dietro nel ricordo. Il doppio è un tema intimo e letterario (fortissimamente letterario), con cui l’autore gioca fin dall’inizio, e che apparteneva anche al suo precedente romanzo, sin dal titolo.

Cos'è autentico, quel che siamo o il nostro doppio che inseguiamo?

«La verità, quel poco di verità cui possiamo attingere, sta nella ricerca, non nella meta. Non sappiamo quasi nulla dell’universo che ci ospita, nemmeno se quest’universo è l’unico esistente o se invece ce ne sono molti altri, come pensava Stephen Hawking. Non sappiamo nulla della morte. Però non possiamo fare a meno d’interrogarci, di cercare. E la letteratura è il migliore strumento di ricerca, perché adotta un linguaggio allusivo, evocativo, perché si esprime per metafore, per storie che rimandano sempre a un’altra storia. Un romanzo felice non è che un sistema di specchi e di riflessi. Come la vita».

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