Una grande passione che si intreccia con la vita privata, quella di una donna normale, con casa e figli da accudire, tra cui uno affetto da bipolarismo. Comincia a narrarsi come madre e moglie, parlando anche del primo incontro con l’uomo che diventerà suo marito, il regista John Landis, Deborah Nadoolman Landis, una delle più importanti costumiste di Hollywood (“Animal House”, “The Blues Brothers”, “1941”, “I predatori dell’arca perduta”), protagonista ieri, nella sala stampa del Palacongressi, della masterclass “Costume, non moda: l’abbigliamento nella narrazione cinematografica”, moderata dal giornalista Carlo Gentile.
Una vita di successi, segnata anche dalla depressione, ma con una voglia di leggere la Storia mai placata: «I costume designer più di altri devono essere buoni lettori – afferma - Sono nata con l’amore per la storia, ma ero molto duttile con la manualità». Cresciuta a New York in una famiglia lontana dai clamori hollywoodiani, le viene incontro la grande opportunità di lavorare nei teatri, dove apprende l’esistenza del suo futuro mestiere: «Non ero interessata alla moda perché non avevo il desiderio di vendere, e l’obiettivo nella moda è vendere. Ho cominciato col fare disegni per il teatro e l’opera - racconta - il cui vantaggio è che, una volta progettato, il costume viene realizzato da altri e poi indossato in scena dagli attori. Ho tentato di mandare avanti la mia vita, finché ho realizzato che la mia vera passione è il cinema. Avevo disegnato già per grandi film, come il primo “Indiana Jones”, che feci a 27 anni».
Landis parla della svolta dei 45 anni, quando, dopo tanta terapia, capisce di avere le capacità per fare un dottorato di ricerca: «Da lì ho iniziato la mia vita, divisa fra la parte accademica e quella della costumista, e, una volta completato il dottorato 20 anni fa, ho ritrovato la strada a 50 anni, dopo essermi persa a 40». Un incitamento a non mollare le proprie passioni, ma anche alla necessità di fare squadra, all’importanza del confronto che, nel caso della costume designer, è fondamentale: «Si inizia dalla sceneggiatura, che è solo testo, senza fotografie. Quando io e John lavoriamo assieme prima leggiamo la sceneggiatura, parliamo degli elementi della storia, e lui non mi dice di disegnare, ma soltanto “dimmi cosa puoi cavare da questo o quello”». Un confronto che porta, prima del disegno dell’abito, a intuire il carattere del personaggio che dovrà indossarlo: «Il regista non mi sta chiedendo di disegnare costumi, ma di creare il personaggio dalla storia, la sua personalità. I registi ci chiedono di far diventare vive le persone dal testo e renderle credibili». Ma è il pubblico che ha l’ultima parola: «Disegniamo i personaggi di una vicenda a cui si interesserà il pubblico e, si sa, gli esseri umani sono molto complicati!».
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