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Un posto al sole nella calda estate di Messina

Un posto al sole nella calda estate di Messina

Oggi l’estate piomba addosso al’improvviso, s’avverte per il caldo e la necessità d’alleggerirsi d’abito. Una volta era sospirata, se ne pregustava l’arrivo già dai primi palpiti di primavera. La gente si riversava sulla passeggiata a mare allagata di luce, quasi incredula di tanta quiete, dopo la tempesta della guerra. Era già tanto essere rimasti vivi, per cui anche piccoli segnali di serenità erano accolti con letizia.

Il cielo punteggiato da palloncini colorati era rasserenante, rispetto ai grossi palloni che, cupi e frenati da cavi d’acciaio, venivano installati in zona porto per impedire agli aerei nemici i raid a bassa quota, mentre il deflagrare delle bombe anticipava la sirena d’allarme.

A offrire lo spettacolo dei palloncini colorati era il solito Diego “u babbu” (scimunito). Gli piaceva trotterellargli appresso, battendo felice le mani finché sparivano lontani, mentre era inseguito dal disperato venditore, a cui aveva reciso il filo che ne tratteneva il volo.

Nel postbellico s’affacciarono due generazioni a confronto che vissero parecchi anni d’interfaccia tra guerra e pace. Le prime, cioé quelle più a ridosso del conflitto, sentivano ancora sulla pelle l’orrore del massacro, mentre le successive riacquistarono la gioia di vivere, seguendo il naturale rinnovamento del costume e dei maggiori eventi che ne influenzarono il rapido divenire. La musica da ballo prima s’ubriacò del liberatorio boogie woogie, finché approdò al non meno sconocchiante rock and roll.

L’alimentazione, che aveva toccato il fondo della fame al tempo della carta annonaria, divenne sofisticata al punto da bandire le ghiotte, i grassi, le fritture e ogni elaborata graziadidio, subendo rassegnata l’insipida, ma salutare dieta biologica da supermercato! In sostanza bisognava voltare pagina, l’inarrestabile tecnologia, che aveva reso il mondo di facile approccio e a portata di video, fu complice e testimone d’ogni rinnovamento, spalancando le porte allo sfrenato consumismo. Clamoroso avvento che, per quanto frastornante, fu provvidenziale e, passando dalla costrizione dell’orbace alla libertà dei blu jeans, scacciò dalla memoria la disperata espressione, ripetuta ogni cambio di stagione: “E ora che mi metto?”. La frase era riferita a quelle quattro pezze smunte e rattoppate che, impregnate di naftalina, vestivano una nazione smarrita tra le macerie della guerra.

Anche i giochi dei ragazzi andavano seguendo l’evoluzione dei tempi fino all’oggi, in cui si può intraprendere lo svago che si vuole, purché sia digitale. Addio giochi semplici e ardimentosi dal librare l’aquilone sempre più in alto, oppure porsi a cavalcioni dei leoni di marmo, già ai lati dell’imbarcadero, per sentirsi dei piccoli Tarzan, un eroe dei fumetti editi dalla casa editrice Nerbini di Firenze. C’era pure l’atteggiarsi a novelli Colapesce, perlustrando in apnea il tratto di mare lungo la Fiera Campionaria, per soffermarsi non a caso, tra le palafitte che reggevano il terrazzo dell’Irreramare. Erano gelati assicurati quando si riportavano a galla i tanti oggetti scivolati dal sovrastante Ritrovo.

Addestrava i giovani sub Lillo Arena un barcaiolo di Faro che, durante la disfatta, aveva rischiato la vita per traghettare dalla Calabria in Sicilia parecchi militari sfuggiti ai tedeschi. Era il tempo in cui quel braccio di mare soffriva solo d’insidia bellica, quella speculativa arrivò col benessere d’invenzione politica! I ragazzi erano affezionati a don Liu, dal fare brusco ma dal cuore generoso, che li premiava portandoli al “Murazzo”, una pescosa località nei pressi di forte San Salvatore, il bastione su cui s’erge benedicente e maestosa la Madonnina del porto. Le rischiose battute riuscivano sempre proficue, stando al cumulo di lische di costardelle assaporate con la cipolla di Tropea e fritte dentro una baracca accanto al lido “La Sirena” in zona Maregrosso. Erano mangiate a “organetto”, così si dice quando s’addentano e poi si passano da un lato all’altro della bocca!

Da quelle parti lo stabilimento balneare più conosciuto era il Lido Sud, mentre i bagni Vittoria e il Principe Amedeo sul viale della Libertà ospitavano la Messina bene che, in seguito, si trasferì nei moderni stabilimenti balneari di Mortelle sul Tirreno, dove il mare è più caldo dello Jonio e le attrezzature di maggior conforto. La differenza tra i vari lidi era comunque determinata dal look da spiaggia delle bagnanti, ovviamente riferita al tempo dell’autarchia, quando si chiedeva alle donne di bandire capi d’abbigliamento, cosmetici e quant’altro fosse di produzione straniera. L’avvertimento fu ripreso dalla Gazzetta di Messina in un dettagliato articolo a firma di Guido Notari. Tornando agli stabilimenti in voga, c’è da aggiungere che garantivano più quiete, essendo proibito il gioco del pallone, dei tamburelli, di radioline ad alto volume in uso a “carnai” picchiettati da traballanti ombrelloni.

Tra i diritti della beata gioventù c’era il fantasticare, crescere in sintonia con le esperienze maturate in famiglia, a scuola e gradualmente in società. I tempi erano ben scanditi nelle varie fasi anagrafiche, cioè si passava dai pattini alla bicicletta che, per i più agiati era a motore. L’automobile, invece, faceva parte di quei sogni sperimentati dai giovanissimi e che, col trascorrere degli anni, diventava status simbol! Nonostante la martellante pubblicità, la radio stentava ad entrare nelle famiglie, malgrado l’abbonamento costasse appena 81 lire annue. La stessa sorte subì il telefono, ritenuto ruffiano con donne per casa! Sortì strepitoso successo, invece, la cartolina postale, che si trovava per pochi centesimi in ogni tabaccheria ed era ritenuta il mezzo di comunicazione più soddisfacente.

Dalla proclamazione della Repubblica in avanti il Paese subì radicali trasformazioni che esplosero nel boom economico, scoppiato intorno alla metà del secolo scorso e di cui la cambiale fu allegra complice e agevole innesco! I vari cicli storici e sociali furono segnati dai personaggi che, costituendone esempio e guida, ne lasciarono indelebile traccia. La caduta degli “dei” coincise con lo sfascio della città. Uno dopo l’altro furono recisi i riferimenti che politicamente furono d’impaccio ai nuovi arrivati, ostacolandone il cambiamento! Al tempo della dittatura lo stile di vita seguì la corrente del momento dallo sport (littoriali) all’architettura di tendenza ruffiana al regime.

Le restrizioni furono accettate nel pieno convincimento che fossero per il bene della patria, mentre becere scritte inneggianti Mussolini tappezzavano i muri di vie e piazze. Le giovani italiane nel 1938 allineate e coperte, svettavano impettite tra sventolanti gagliardetti e una marea di gente assiepata al molo Colapesce in attesa del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che coniugava il mito dell’Impero coloniale col fascino del Continente Nero. Il volto del “Leone di Neghelli” era conosciuto a livello popolare perché stampato sulle “cartelle” che, per un gioco molto in voga, si scambiavano i ragazzi.

Il generale, sbarcato dalla motonave Francesco Crispi, dopo una breve presentazione di Gennaro Villelli, venne colto da commozione quando la fanfara intonò il motivo cantato dai legionari in partenza per l’Africa: “Io ti saluto e vado in Abissinia”. La partecipazione femminile all’evento significava riscattarsi dai fornelli, dove l’ostinato carbone a palla (durava di più e costava meno) ritardava a sbraciare, nonostante l’energico soffiare col “muscaloru” (rudimentale ventaglio di paglia).

La Messina d’allora veniva sostenuta dall’imprenditoria, dall’artigianato e dal commercio, però, come nell’attuale, a costituirne importante nucleo era la classe impiegatizia che condivideva con i cantanti in voga, tra cui Natalino Otto e a tempo di fox trot, il sogno del motivetto: “Se potessi avere mille lire al mese”. L’importante somma, durante la campagna demografica e a titolo di premio per i loro 11 figli, fu intascata dai coniugi Francesco e Angela Pino di Villafranca Tirrena che si presentarono al cospetto del Duce a Palazzo Venezia. C’è da considerare che i dipendenti riuscivano a sbarcare il lunario perché mancavano gli elettrodomestici, la televisione era da venire, i libri di scuola si ripetevano e si passavano da padre in figlio.

La moda, a livello medio borghese, subiva rari cambiamenti, per cui anche gli abiti si trasferivano da una generazione all’altra con la variante della camicia nera, indossata in permanenza per due decenni. I costumi da bagno, spesso usciti dall’uncinetto d’amabili nonne, slabbravano ostinati soprattutto nelle parti intime che, se destavano scandalo, incappavano nelle multe di scrupolosi vigili, non per niente, della squadra del buoncostume. La censura, che mollò le redini pure sulla cinematografia, divenne tollerante fino a sbracare e, in nome della libertà dal pudore, consentì il due pezzi che si ridusse a topless e, dopo il bikini, fu sùbito tanga! Interpreta l’attuale, se non altro nel titolo, il reality televisivo: “Nudi e crudi”.

L’uso smodato della lingua inglese va annacquando l’identità della parlata nostrana, che, qua e là, appiccica espressioni anglosassoni, care al mondo della tecnologia e della finanza. Addio espressioni, spesso d’araba malìa, pronunciate in marcato dialetto: “stinchillè” (mancamento), “di chi bai” (come ti chiami), “liccu” (goloso), “chi nic nac” (che c’entra), “a tinchitè” (in abbondanza), “b’buciaari” (gridacchiare), “spitittatu” (disappetente). La politica preferisce affidarsi alla lingua di Shakespeare per “n’nappiari” (confondere) il cittadino medio che, tra capo e collo, si sente arrivare parole “mammalucchine” (per mammalucchi), tipo: “spending review”, “flat tax”, “spread”, “bound” “job act”, “rating”, “default”, il cui significato, nel comune sentire, sottende la fregatura!

Con la stessa agilità con cui sforbiciava sopra la testa del cliente, come a suggellare l’abbrivio della sfumatura, don Peppino Parisi, cavaliere per antonomasia, affrontava tra il serio e il faceto qualsivoglia argomento riferito a Piazza Cairoli, il salotto buono della città, dove aveva la barberia con tanto di simbolo di “Torquato”, un tubo colorato e ruotante che identificava la categoria, posto sopra la porta d’ingresso. I fatti del giorno erano passati a setaccio con sferzante ironia. Fu assai dibattuto, ma abbandonato al destino comunale delle incompiute, il progetto di ritagliare i marciapiedi di Piazza Cairoli, abbattendo un buon numero di alberi, per consentire la circolazione rotatoria.

Al cliente che si lagnava perché l’acqua dell’insaponatura fosse fredda, l’acculturato principale raccontava la storiella dei barbieri che, diseredati della bottega dal terremoto del 1908, agivano lungo il molo. I disagi erano inauditi, soprattutto per l’assenza d’acqua. E quando il solito brontolone attribuiva a mancanza di rispetto il gesto del barbiere, costretto a sputare sul pennello per l’insaponatura, il figaro da molo adduceva d’averlo riguardato, perché agli altri sputava direttamente in faccia! La stessa prontezza di battuta la riservava al burlone che desiderava lavata la testa con lo champagne. Senza scomporsi il cavaliere rispondeva che tale tipo di sciampo era in uso nella filiale di Parigi.

La festa per i cento anni del salone (1860-1960) venne organizzata all’Irreramare, la città fu rappresentata dal sindaco del tempo avv. Carmelo Fortino che dichiarò: “Dall’Unità d’Italia a oggi nella centenaria barberia si sono tagliati capelli, barbe e baffi, mai la lingua che, con critica ironia s’interpone a salvaguardia dei diritti della nostra città, che merita un posto al sole dell’avvenire!”.

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