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"I nostri ponti? Niente allarmi ma verifiche"

"I nostri ponti? Niente allarmi ma verifiche"

Il dramma di Genova ha innalzato la soglia di attenzione su tutte le strutture simili al ponte Morandi. Anche nel nostro territorio ci sono viadotti costruiti in quello stesso periodo con tecniche, quella del calcestruzzo precompresso, del tutto simili. È difficile sapere le condizioni delle nostre strutture ma c’è chi se ne occupa da 30 anni e può darci una panoramica generale.

Si tratta dell’ingegnere Antonino Recupero, docente di Tecnica delle costruzioni e ponti all’Università di Messina. Lui è uno dei soli dieci professori che insegnano come costruire un ponte, in tutto il Paese. E a Messina, al dipartimento di Ingegneria, c’è il migliore laboratorio di ricerca del sud Italia proprio su questo tipo di materiali. Il consiglio? Niente allarmi ma subito verifiche.

- Quali ponti sono più e meno sicuri lungo le nostre arterie principali?

«Ogni tipologia di ponte ha le sue debolezze. Il ponte in muratura soffre dello scalzamento al piede, quello d’acciaio della eccessiva corrosione, ed anche quelli in calcestruzzo precompresso hanno i loro punti deboli. Vengono messi in crisi dalla corrosione e questo può accadere particolarmente per i ponti costruiti negli anni ’60. Ma bisogna stare attenti a dire che tutti i ponti in precompresso hanno un vita utile di 50 anni perché si fa facile allarmismo che crea panico e procurato allarme. Questo è grave quasi quanto il procurato crollo».

- Quanto somiglia ai nostri ponti quello crollato a Genova?

«I nostri ponti hanno in comune con quello di Genova il fatto di essere stati costruiti in calcestruzzo precompresso, anche se il Morandi era precompresso negli stralli e negli impalcati. Quelli del messinese solo nell’impalcato. Non abbiamo strallati, cioè con tiranti, sulla A18 e A20, ma solo schemi a travata. Il problema della struttura precompressa però c’è, specie in quelli costruiti con tecnologia post tesa. In questo caso, il cavo veniva inserito in guaine metalliche e veniva successivamente iniettato. Il problema sta proprio nell’iniezione, nel riempimento del cavo, nell’intasamento del metallo. Se non fosse stato intasato bene con boiacca di cemento per proteggere il ferro, molto sensibile all’ossidazione, il cavo, nel tempo, andrebbe verso la corrosione».

- Quanti ce ne sono di ponti costruiti con questa tecnica post tesa?

«Difficile da dirsi, non è possibile stabilirlo senza analisi con i georadar o con indagini endoscopiche che si possono fare all’interno dei condotti per verificare la condizioni del ferro e se effettivamente è stato fatto un intasamento. Da 25 anni a questa parte anche il post teso avviene con iniezione sotto vuoto e la corrosione non avviene. Ma per esempio in Piemonte è caduto un ponte costruito 10 anni fa perché non fu fatto bene l’intasamento. Non è detto, perciò che un ponte costruito 60 anni fa, stia peggio di uno del 2000».

- Lei è stato fra coloro che hanno firmato la relazione che ha indotto il Cas a ridurre la carreggiata del viadotto Ritiro e poi a ricostruire il ponte. Una scelta, allora criticata, ma con il senno di poi lungimirante. Quanto fu importante ridurre il traffico sul Ritiro?

«Allora fu redatta una convenzione fra Cas, Comune, Anas e Università. Firmai insieme ad altri una convenzione di verifica che doveva esprimersi sulla compatibilità della vecchia struttura del Ritiro e la nuova struttura dello svincolo di Giostra. Quando abbiamo effettuato le prime prove, non solo ci accorgemmo che la connessione non avrebbe retto, ma che il Ritiro aveva due grossi problemi. Uno legato proprio al calcestruzzo e alle armature le cui condizioni di degrado erano preoccupanti e l’altra legata alla tenuta sismica, perché mancavano i ritegni antisismici. Era stato progettato, un po’ come il Morandi, nel 1965 e la legge che ha riscritto la normativa sull’argomento è del 1974. Come a Genova fu pensato perché, per esempio, vi transitassero carichi come carri armati da 60 tonnellate, una volta l’anno. Adesso mezzi pesanti di quel peso possono passare anche una volta al giorno. Anas dopo la nostra relazione propose il transito su una sola corsia, in attesa di un intervento, e fatti i calcoli approvammo. Attenzione, non sarebbe crollato in pochi mesi, ma sul lungo periodo non era da escludere. Adesso che lo stanno ricostruendo, sarebbe utilissimo poter studiare le travi che vengono smontate».

- Un’analisi degli altri ponti costruiti in quel periodo, vi è stata mai commissionata?

«No, mai commissionata. L’Università è sempre a disposizione per farlo. Abbiamo una delle unità scientifiche d’avanguardia rispetto al contesto nazionale. Stiamo lavorando a tempo pieno dal 2004 sulla corrosione dei ponti. Stiamo corrodendo artificialmente delle travi che proprio in questo giorni abbiamo sottoposto a prova. Nel 2015 abbiamo vinto un progetto di ricerca di interesse nazionale e siamo l’unica unità d’Italia che sta studiando la corrosione sui ponti precompressi, come il Morandi».

- Cosa consiglierebbe a Cas e Anas?

«Bisogna partire da una classificazione dei ponti, capire in che epoca sono stati costruiti, fare una ricognizione dei progetti originali, escludere i ponti costruiti con la tecnica “pre tesa” che ci tiene a riparo dalle corrosione, e concentrarsi sulle tipologie post tese. Fare indagini su questo tipo di viadotti, indipendentemente dalla data di costruzione, per capire se tutte le operazioni sono state fatte per bene. Ma attenzione, tutti i viadotti costruiti prima del 1974 dovrebbero essere “attenzionati” per la tenuta sismica».

E il Cas non si è fatta scappare l’occasione di poter usufruire della preparazione del dipartimento d’Ingegneria dell’Università di Messina. Proprio ieri il direttore generale del Consorzio Salvatore Minaldi ha chiesto la disponibilità dell’Ateneo a garantire un supporto in termini di ricerca. Il gruppo di lavoro del Papardo potrebbe aiutare a capire quali possono essere le cause del degrado delle strutture e consigliare interventi come è avvenuto con il Ritiro. Forse è arrivato il momento di sapere in che condizioni siano i quei ponti che passano sulle teste dei messinesi da cinquant’anni.

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