Dopo la prima udienza andata a vuoto per alcuni difetti di notifica si è aperto questa mattina il processo d’appello “Corsi d’oro 1”, uno dei due tronconi della maxi inchiesta sulla formazione professionale in Sicilia e a Messina che provocò un terremoto politico sin dal 2013.
Il sostituto procuratore generale Adriana Costabile, condividendo l'appello della Procura, ha chiesto per tutti gli imputati, l'aggravamento della pena.
In concreto il sostituto Pg ha chiesto alla Corte d'appello dieci richieste di condanna, anche per i due imputati assolti in primo grado, e tre conferme di pena. La prossima udienza è fissata per il 14 giugno.
In appello, davanti alla sezione penale della corte d’appello presieduta dal giudice Franco Tripodi, sono coinvolti 18 imputati, 13 persone fisiche e cinque persone giuridiche, gli enti di formazione, più ben 18 parti civili, tra cui la Regione Sicilia e l’assessorato regionale all’Istruzione e alla formazione professionale, di cui 16 privati cittadini. L’accusa sarà sostenuta dal sostituto procuratore generale Adriana Costabile.
Alla sbarra in appello Elio Sauta, Graziella Feliciotto, Chiara Schirò, Concetta Cannavò, Natale Lo Presti, Nicola Bartolone, Carlo Isaja, Carmelo Capone, Natale Capone, Giuseppe Caliri, Salvatore Giuffrè, Daniela D’Urso e Daniela Pugliares. E poi gli enti o associazioni Ancol, Elfi Immobiliare, Sicilia Service, Centro Servizi 2000 e Pianeta Verde.
Nel marzo del 2017 il processo si concluse in primo grado con 11 condanne e 2 assoluzioni. La sentenza fu della seconda sezione penale del tribunale presieduta dal giudice Rosa Calabrò. Le accuse iniziali erano di associazione finalizzata al peculato e alla truffa, reati finanziari e falsi in bilancio, connessi alla gestione degli enti di formazione professionale, e poi di peculato, truffa e tentata truffa. In questo processo tutto ruota attorno ai tre centri di formazione Lumen, Aram e Ancol. Le indagini della Guardia di Finanza hanno fatto luce sul complesso ingranaggio attraverso cui venivano “gonfiati” i prezzi delle prestazioni di servizio o degli acquisti di beni necessari per l’attività degli enti. Le condanne inflitte: 7 anni e 6 mesi all’ex consigliere comunale Elio Sauta, presidente dell’Aram; 3 anni e 6 mesi alla moglie Graziella Feliciotto; 2 anni e 2 mesi a Chiara Schirò, moglie dell’ex parlamentare di FI e Pd Francantonio Genovese; un anno all’ex segretaria di Genovese, Concetta Cannavò, in questo caso rappresentante della Lumen; 4 mesi a Daniela D’Urso, moglie dell’ex sindaco Giuseppe Buzzanca. Sono stati condannati inoltre ad un anno e 5 mesi Natale Lo Presti, ad un anno e 4 mesi Nicola Bartolone, a 6 mesi Carlo Isaja, un ispettore del Lavoro, a 2 anni Carmelo Capone, ex assessore comunale e rappresentante dell’Ancol, ad un anno e 8 mesi Salvatore Giuffrè, a 3 mesi Daniela Pugliares. Due imputati “uscirono” dal processo: si trattò di Natale Capone e Giuseppe Caliri (ma la Procura per loro ha proposto appello), che registrarono sia dichiarazioni di prescrizione e anche assoluzioni nel merito. Casi di prescrizione furono riconosciuti anche a Sauta, Feliciotto, Cannavò, Lo Presti, Carmelo Capone. Assoluzioni parziali da alcuni capi d’imputazione registrarono Bartolone, Carmelo Capone e Daniela D’Urso. Il beneficio della pena sospesa e della “non menzione” i giudici lo accordarono a Cannavò, Lo Presti, Bartolone, Isaja, Capone, Pugliares, mentre per la D’Urso concessero solo la sospensione della pena, ma non la “non menzione”.
La Procura ha appellato la sentenza di primo grado poiché a giudizio dei magistrati che hanno retto l’accusa al processo la sentenza non avrebbe tenuto conto di quanto è accaduto nel corso del processo. Il reato di peculato - hanno spiegato i magistrati nell’atto di appello -, a differenza di quanto è stato scritto nelle motivazioni depositate a giugno scorso è invece sussistente, e deve far riconsiderare le pene inflitte, adeguandole.
L’atto è stato a suo tempo siglato dal procuratore capo Maurizio De Lucia, dall’aggiunto Sebastiano Ardita e dai sostituti Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti.
I motivi tecnicamente scanditi dai magistrati dell’accusa nel loro atto furono essenzialmente due: una “Erronea valutazione dei fatti, con richiamo ai precedenti del giudizio cautelare ed omessa valutazione degli esiti del dibattimento”, e una presupposta “Erronea applicazione della legge penale” sul fondamento del peculato e le sue caratteristiche distintive rispetto alla truffa, con “l’errore in fatto” che avrebbe commesso il tribunale che si “riverbera sulla applicazione della legge penale”. Numerosi poi sono gli atti d’appello dei tanti difensori impegnati, che chiedono la rinnovazione del dibattimento.
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