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Orlandina, retrocessione fa rima con presunzione

Dall’aver puntato su giovani rivelatisi modesti alla dannosa partecipazione alla Champions sino alla scelta di Maynor

Orlandina, retrocessione fa rima con presunzione

Il sogno dell’Orlandina ha subito un amarissimo risveglio. In appena 12 mesi dall’impresa nei playoff al Forum di Milano alla retrocessione, la prima sul campo in sette stagioni di Serie A, che per l’intero Sud hanno rappresentato una delle favole sportive più eclatanti a livello nazionale. Un paese piccolo e orgoglioso che ha realizzato miracoli a canestro grazie al presidente-sindaco Enzo Sindoni (e al suo gruppo), un manager capace di riportare in pochi anni la sua creatura nell’olimpo cestistico, dopo la cancellazione del 2008. Una doppia scalata, roba ancora adesso da non credere.

La discesa in A2 è un evento triste, anche se non è morto nessuno e si tratta pur sempre di un gioco. Bellissimo e spietato. Perché non lascia troppo tempo per guardarsi allo specchio con vanità.

Oggi è naturale allungare delle ombre sulla doppia affermazione finale di Pesaro contro le prime della classe. Una squadra in netta difficoltà che batte Milano (addirittura in trasferta) e Venezia scatena illazioni, teorie del complotto, intervento dei poteri forti. Ipotesi legittime e scontate, che lasciamo ai tifosi.

La realtà è che Pesaro – abituata, nelle ultime stagioni, a salvare la pelle proprio sul filo di lana – pur essendo la più debole del lotto, è riuscita ancora una volta a trovare la quadra al momento giusto, vincendo innanzitutto uno scontro diretto che dopo 20 minuti sembrava nella cassaforte dei paladini (insieme alla virtuale permanenza), autori, invece, nella ripresa dell’harakiri rivelatosi determinante.

I primi a essere straconvinti che l’Orlandina ce l’avrebbe fatta eravamo noi che, però, avevamo anche la consapevolezza che 7-8 vittorie sono poche per sentirsi al sicuro e che il banco poteva saltare in un attimo. E così, purtroppo, è stato.

I numeri impietosi

Non sono tutto, ma dicono sempre qualcosa. In campionato 30 partite giocate, con 7 affermazioni e 23 sconfitte, una striscia di 14 ko consecutivi e nelle ultime 19 giornate appena 2 successi che poi sono gli stessi ottenuti nel ritorno. Delle 23 sconfitte, cinque sono arrivate con uno scarto tra 30 e 40 punti (sfiorando a Trento il -50); altrettante tra 20 e 30 e sette con un passivo oltre le 10 lunghezze. Totale: 17.

In Champions 16 giocate, 3 vinte e 13 perse. Una, con Tenerife, ha “rischiato” il -50; due sono arrivate con un margine tra 30 e 40 punti di scarto; altrettante tra 20 e 30 e cinque tra 10 e 20.

Bilancio complessivo: 46 partite disputate (un’enormità), 10 vittorie e 36 sconfitte (di cui 27 con un risultato finale – diciamo così – non in equilibrio). E anche venti ko consecutivi tra le due competizioni. Un disastro.

L’analisi degli errori che hanno portato in A2

Scrive “Gazzetta del Sud” il 4 ottobre, dopo il +33 su Saratov: «ll pubblico – afferma Enzo Sindoni – è stato trascinato dall’atteggiamento positivo di una squadra nei confronti della quale lo scetticismo “mascherava” l’incompetenza di chi aveva espresso dubbi senza conoscerla. Invece questa Orlandina rispecchia un sistema ed un progetto il cui merito va anzitutto ascritto a mio figlio Giuseppe. Ogni scelta è avvenuta con visione e coerenza».

Ecco, mai come in questo caso, retrocessione fa rima con presunzione. Mai vista tanta, tutta insieme, concentrata in pochi mesi. Si dirà che è la stessa presunzione che ha spinto l’Orlandina al vertice del basket italiano. Sacrosanto. E stavolta, viceversa, l’ha fatta precipitare in A2 in una stagione in cui ci si poteva salvare raggiungendo appena quota 16.

Champions League

Se società più strutturate e con maggiore esperienza, con cadenza annuale, scelgono di non partecipare alle coppe, dopo averne acquisito il diritto, un motivo ci sarà. Perché tutti, nello sport, vogliono realizzare i propri sogni. Se rinunciano, è perché sanno bene che se non si ha la forza, l’Europa può rivelarsi un boomerang. Chiaro esempio, Varese edizione 2016-17: ultima in A e in Champions, prima di invertire rotta. E così Pistoia, piazza con oltre 10 stagioni di A, la scorsa estate, memore dei precedenti (degli altri) ha detto alla coppa “no grazie”, lasciando il posto all’Orlandina. Che, senza una logica ma solo con superficiale pretesa, ha deciso di «entrare nella storia».

Lo confessiamo: noi abbiamo tifato per l’Avtodor Saratov, convinti che l’eliminazione sarebbe stata la panacea per il campionato (anche se ostinatamente era già pronto il sì alla Fiba Europe Cup, una specie di Mitropa o torneo Anglo-Italiano di lontani ricordi). L’inutile partecipazione alla Champions ha rappresentato l’inizio della fine. Continue batoste che hanno minato il morale, viaggi infiniti e stancanti, infortuni in serie, minor tempo per preparare in allenamento le partite di A, disaffezione del pubblico che aveva negli occhi ancora la “squadra delle meraviglie”. Altro che gloria! Nella vita c’è un tempo per tutto. E per l’Orlandina quello di giocare in Europa era ancora lontano. Non si sentiva proprio il bisogno di dover stupire a tutti i costi.

A questo si è aggiunta l’insistente arroganza di ambire (a chiacchiere) al quarto posto o, in alternativa, a uno dei primi sei per continuare l’avventura continentale. Una tiritera che ha reso ancora più complicata la situazione.

Il peccato originale nella costruzione della squadra

L’analisi parte da lontano. Dall’impossibilità di confermare, per ragioni economiche, gran parte del gruppo che aveva centrato Final Eight e playoff. Eppure, i leader e i trascinatori avrebbero potuto e dovuto far parte di questa Orlandina. Ancora incomprensibile la decisione di non trattenere Tepic e Diener, preziosi anche per la duttilità dei ruoli.

Il serbo dalla grande carriera, rilanciato proprio dai colori biancazzurri, per coach Di Carlo era il punto fermo da cui ripartire. E invece non ha ricevuto alcuna offerta, firmando a Brindisi (quindi non un ricco club turco o russo).

Il fantastico americano, capace di entusiasmare il “PalaFantozzi” con la sola presenza e artefice tecnico e morale, a distanza di 10 anni, dell’exploit-bis, non voleva giocare la coppa e per questo motivo ha manifestato l’intenzione di andare via, addirittura in A2 (Cremona non era stata ancora ripescata) quando invece sembrava destinato a chiudere la carriera a Capo d’Orlando. Accontentato! Altrove a “Mandrake” esempio di classe, che con il suo ritiro lascerà molti tifosi “orfani” in giro per l’Italia, avrebbero dato carta bianca pur di convincerlo a rimanere, con l’obiettivo di guidare la nuova creatura, proponendogli di scendere in campo solo in campionato. Invece, un caro saluto e stop.

Lo chef stellato mancato

Sorretto dall’euforia generata dal meritatissimo premio di miglior dirigente dell’anno, Peppe Sindoni ha deciso di trasformarsi nel Gualtiero Marchesi o Carlo Cracco (fate voi) dei gm italiani. Non più cucina tradizionale – che aveva fatto la fortuna del club – con “ingredienti” abbastanza comuni ma che conoscevano tutti i segreti dei parquet, ma chef di alta arte del cibo, pardon del basket. E così, spazio ai giovani (presunti) talenti, immaginando di (ri)costruire la Jugoplastika o il Partizan dei bei tempi. Dimenticando, però di aver sempre vinto, sin dalla A2, con tanti over 30.

Chiarito subito l’equivoco Talton in regia, come uomo di esperienza è stato affiancato il turco Atsur al confermato (unico) pivot Delas, che era diventato un big perché accanto aveva veri big. In attesa di Voja Stojanovic, alla bella presa di Edwards sono stati aggiunti un paio di comprimari diventati – cammin facendo – protagonisti per forza (vedi Wojciechowski e Ikovlev) e, appunto, dei bambini a cui consegnare il tesoro.

I modesti virgulti

Ci è stato spiegato che attorno a Inglis sarebbe dovuto ruotare tutto, poiché il francesino era il perno del gioco. L’unica cosa che abbiamo capito è che dopo poco più di un mese ha fatto la valigia. Kulboka, spedito dal Bamberg in Sicilia (dopo che i tedeschi avevano fatto la stessa proposta a Pistoia, credendo – in un primo momento – che fosse lei a disputare la coppa...), si è dimostrato tenero come un grissino. Altro che 20 scout Nba o premio di miglior giovane della Champions! Il lituano sa tirare solo da tre punti, segna a partite finite, non difende e nonostante i “due metri e passa” non ha un movimento spalle a canestro. Potrà un giorno pure giocare contro Durant, ma oggi sembra uno stralunato ragazzino, “abile” a regalare palloni fondamentali agli avversari (anche Cremona ha ringraziato). E pensare che le fortune dell’Orlandina dovevano passare dalle sue mani...

Il “capolavoro” per trequarti di stagione è stato, però, affidare la bacchetta del comando per 17-18 minuti (non spiccioli) a Mario Ihring, indicato dal management come architrave del presente e del futuro. Non ce ne voglia lo slovacco, ma il palco ideale su cui esibirsi per la sua ulteriore crescita sarebbe stata la B italiana (se avesse potuto a norma di regolamento) o un campionato di terza fascia europea. Invece è stato pervicacemente proposto o imposto in campo, forse per dimostrare che gli altri non capivano nulla e che prestissimo si sarebbe trasformato in... carrozza. Quando, però, con 7 mesi di ritardo ci si è finalmente accorti che non riusciva neppure a passare la metà campo, è stato ceduto in Polonia, a uno dei migliori club di un torneo, appunto, di terza fascia dove, lì sì, hanno capito subito il suo valore e infatti non gioca (quasi) mai.

Tutto sbagliato
tutto da rifare

Più o meno in ordine cronologico e sparso è successo che: forti di alcune buone prestazioni esterne (le uniche) a Reggio Emilia, Sassari e Ventspils, si è deciso di non sostituire Inglis, anche dopo aver “girato” per un mese la telenovela Dustin Hogue, lungo di altro livello che ci ha ricordato la storiella: «Pagare moneta, vedere cammello». Trattare (inutilmente) Hogue ci ha, però, fatto comprendere che l’Orlandina problemi di budget non ne aveva. Infatti, per ovviare tardivamente alle lacune in regia (Atsur, il migliore della stagione per abnegazione, non era più abituato a giocare 25-28 minuti), ecco l’operazione “Fitipaldo-2” (per la serie; è riuscita una volta, riuscirà ancora). Via con buyout il positivo Edwards e dentro il costoso “capriccio” Maynor, talento purissimo ma ondivago, vera croce e delizia, che in Italia ha fatto bene solo con il “generale” Caja. Out una guardia (non sostituita), in un playmaker. Ci è stato spiegato che problemi in tal senso non ce ne sarebbero stati. Salvo poi ingaggiare a febbraio Faust, fermo da mesi e che prima di dimostrare di non essere solo energia e istinto, ha aspettato un tantino troppo. In questo frattempo veniva non rinforzato, ma direttamente smantellato l’intero settore lunghi. Addio a Delas, Ikovlev e Wojciechowski; chance (ben ripagata) a Campani e super colpo Likhodey, l’ingaggio di lusso che è servito a confermare che i soldi necessari non mancavano (ah, utilizzarli per bene a luglio e agosto...).

La lunga pausa della Serie A ha agevolato il restyling e per lo scontro salvezza di Pesaro nessuno avrebbe immaginato un’Orlandina non al completo. E invece sì: per stare dietro a tale Kyser (6.6 punti e 5.1 rimbalzi con i greci del Kymis) si è perso tempo e quando si è deciso di puntare sull’eccellente mestierante Justin Knox, il “visto” non è stato timbrato in tempo per debuttare all’Adriatic Arena. E Pesaro ha rimontato con 27 rimbalzi e 53 di valutazione totali dei suoi lunghi Omogbo e Mika.

E non è finita. Perché dopo aver fatto perdere più volte la pazienza ai tifosi, con il suo atteggiamento indolente e con un rendimento quasi sempre insufficiente (solo un paio le partite sopra le righe), ecco arrivare il taglio di Maynor (difeso a oltranza sino a una settimana prima), sostituito con Adam Smith, buon giocatore, subito disponibile e tesserabile (fattori rivelatisi determinanti), ma certamente non un playmaker. Ruolo che nel delicato finale tornerà essenzialmente nelle mani di Atsur che, guarda un po’, quando andò via Edwards, ci dissero che sarebbe stata l’ideale guardia di esperienza da affiancare all’ex varesino. Per la serie: decidetevi, che ci siamo confusi.

Via Di Carlo, dentro Mazzon

Ora tutti a dire: «Se Di Carlo fosse stato esonerato prima, l’Orlandina si sarebbe salvata». Con il senno di poi è molto probabile perché Mazzon ha dato una marcia in più. Ma è anche vero che il veneziano ha potuto allenare una squadra più forte (splendida la crescita di Stojanovic) e per più tempo rispetto al suo predecessore. Che ha una sola, grandissima colpa: aver accettato e condiviso per mesi un organico costruito male e rifatto peggio. A cui aggiungere, dopo la sequela di sconfitte, le sue inascoltabili parole in conferenza stampa piene di luoghi comuni e di frasi fatte. Mai una scossa, un impeto di fronte alla slavina che veniva giù.

Titoli di coda

Il resto è storia recente, con la Cremona dei grandi ex che realizza 119 punti in quella che era la partita della vita. Anche la fortuna, la mitica zalagrina, ha abbandonato in quest’anno disgraziato Capo d’Orlando che proprio nell’appuntamento clou ha perso per infortunio Knox e Likhodey, cioé l’asse portante della speranza.

La nostra analisi è stata dura, ma abbiamo sempre ammirato nella storia di una società più forte di tutto, il costruttivo atteggiamento del «vogliamo arrivare quindicesimi» oppure la rabbia positiva quando gli addetti ai lavori indicavano l’Orlandina come candidata alla retrocessione. Proprio quando la presunzione di essere diventati Re Mida ha superato i limiti, è cominciata l’irreparabile discesa. Tornare in A si può, anche prestissimo. Ma stavolta sorretti solo dall’umiltà.

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