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L’omicidio della città nascosta che rimane un tarlo irrisolto della società civile

L’omicidio della città nascosta che rimane un tarlo irrisolto della società civile

Pioveva quella sera. Erano le nove e sedici minuti del 15 gennaio 1998. Un sipario di pioggia leggera al semaforo dell’ultimo istante di vita di Matteo Bottari, una vita conclusa in un modo terribile per mano di quattro killer divisi tra moto e auto.

Quattro sicari forse calabresi con un appoggio locale che a distanza di vent’anni non hanno ancora né un volto né un nome.

L’omicidio della città nascosta. Che rimane un tarlo irrisolto della società civile. Una clamorosa sconfitta per la giustizia. Una sconfitta piena di errori investigativi e giudiziari.

Uno su tutti: la restituzione al legittimo proprietario della Fiat Uno bianca rubata, trovata poco dopo l’esecuzione con gli sportelli ancora spalancati nei pressi degli imbarcaderi privati, probabile auto d’appoggio dei killer, senza eseguire alcun accertamento.

Quando gli investigatori ci ripensarono e corsero a riprenderla era ormai troppo tardi, il proprietario l’aveva fatta ovviamente ripulire in un lavaggio, nel posacenere non c’era più traccia delle sigarette pestate che qualcuno si ricordava d’aver visto qualche giorno prima. E tutto questo non lo raccontò, qualche tempo dopo, uno qualunque, ma l’allora sostituto procuratore della Dda Salvatore Laganà che aveva ereditato l’inchiesta, rimanendo allibito nel leggere questa storia.

Vent’anni. Alfonsetta Stagno d’Alcontres Bottari ieri sera è rientrata a casa dopo aver partecipato al sit-in in ricordo di suo marito: «Sto ancora chiedendomi “perché?”, e nonostante tutto il tempo che è passato vorrei conoscere la verità».

Poche parole tristi, di pietra e di vita, di chi è rimasto come appeso a quell’ultima telefonata col marito, poco prima dello sparo devastante: «Non parlammo, si sentì subito un botto, come un rumore di bottiglia di plastica che si accartocciava, pensai fosse caduta la linea e provai a richiamare... ma lui non mi ha più risposto...».

In quelle ore frenetiche di perquisizioni e irruzioni in case eccellenti e insospettabili, s’innescarono dinamiche che poi per molti anni appresso avrebbero travolto carriere e dinastie di potere consolidate.

Sempre sullo sfondo di un’esecuzione eclatante in piena regola mafiosa capace di scatenare una reazione a catena nella sonnolenta Messina, che divenne un “caso” per la Commissione parlamentare antimafia con decine di audizioni in Prefettura, dove sfilarono per mesi magistrati, politici, investigatori, professori universitari.

Più d’una volta, in questi anni, in Procura s’è riaccesa una traccia che ha fatto pensare a una svolta. Qualcuno s’è messo a riascoltare i brogliacci delle intercettazioni telefoniche e ambientali, a rileggere i verbali, ci hanno lavorato in parecchi e tra i migliori investigatori. Ma non s’è venuto a capo di nulla ugualmente.

Non molti anni fa poi, dopo le dichiarazioni più o meno credibili di un duplice omicida divenuto collaboratore di giustizia o quantomeno dichiarante, che raccontò addirittura d’aver fornito il fucile per l’esecuzione, in Procura ci fu una nuova tornata di interrogatori.

E qualche “persona informata sui fatti” sudò freddo per qualche minuto durante un drammatico “faccia a faccia”. Ma anche in quell’occasione, alla fine dei giochi giudiziari, non si venne a capo di niente.

La signora Alfonsetta però, e suo figlio Antonio, hanno diritto di sapere perché fu ucciso, una sera di gennaio lontana ormai vent’anni, il prof. Matteo Bottari. E il tempo trascorso non scalfisce di certo il loro diritto.

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