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Messina, 1956: quel Natale sotto la neve

Messina, 1956: quel Natale sotto la neve

Capitò nel 1956 che una coltre bianca coprisse la città, la rendesse candida nell’aria gelida. Da Cristo Re, Forte Gonzaga, Montalto, così a calare verso il porto e sulla stessa Madonnina benedicente, accadde che la neve imbiancasse ogni cosa, fioccasse per ogni dove, s’adagiasse lieve su tetti, cunicoli, terrazze, venisse accolta a braccia aperte da rami gravidi d’alberi sfiniti. Lo spettacolo rallegrava il Natale nelle notti di ghiaccio, lo rendeva da Presepe nella magia lunare. Laddove all’attracco visi smunti e in ansia sotto la scritta: “Benvenuto ai reduci di guerra” attesero trepidanti i parenti dal fronte, stavolta c’erano volti sorridenti ad accogliere i congiunti che lavoravano al nord. I più arditi sbarcavano su auto spesso segnate dal tempo, arricchite da radio sulle cui spropositate antenne sventolavano orgogliose code leopardate. I loro clacson s’annunciavano strepitosi già sullo scivolo, come a segnalare la superba uscita degli arrangiati bolidi, appesantiti da valige di cartone legate con lo spago.

A conferma che sotto la neve crescesse il grano, nel senso del benessere così vistoso da potersi toccare con mano, la gente per strada si scontrava con pacchetti e pacchettini dono. «Mi raccomando l’auto mi giova per le feste», s’ingiungeva alle concessionarie Lancia Siracusano, Fiat Interdonato e Alfa Romeo Cundari, per citare le commissionarie più in voga. Sartorie e boutique avevano già svolto il loro ruolo, si seppe della ritardata consegna di un pellicciaio della Messina bene perché la cliente, tanto trascurata quanto in vista, l’apostrofò con la battuta che rimbalzò pettegola per salotti: «Antonio non vorrà lasciarmi più nuda del Bambinello?».

Ai grandi magazzini iniziava il ritornello che parecchie taglie fossero ormai esaurite. Dipendenti dalle innumerevoli imprese era palese che avessero esatta la 13a mensilità. Sul fronte dello shopping, infatti, s’incontravano lavoratori d’ogni genere e grado. Erano presenti dirigenti e maestranze degli Aliscafi Rodriquez, Gazzetta del Sud, Marisicilia. Non erano da meno gli essenzieri, la cui attività era assai florida a giudicare dai barili in partenza che gremivano la banchina del porto. Non mancavano all’appello dell’acquisto gli edili, così gli operai della Birra Messina, Molini Gazzi, De Natale e della Imsa, l’azienda che riparava i vagoni ferroviari per l’intero meridione. Era il tempo del boom economico e la città se lo godeva in pieno, nel senso che non si faceva mancare nulla nemmeno la visita del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.

A riscaldare Gesù nella mangiatoia c’era un popolo particolarmente legato al figlio di Maria da quel febbraio 1713, quando il Bambino di cera di padre Fabris iniziò a lacrimare. Come di rito, la processione usciva a mezzanotte dalla chiesa dell’Immacolata col parroco in testa che, tenendo tra le mani il Novello Nato, lo cullava dolcemente sulle note della banda musicale, mentre le campane suonavano a stormo.

“Quando l’ora della cena scocca, focaccia La Rocca”, così la Catri pubblicità, reclamizzava il noto panificio di piazza Cairoli, assieme ad altri luoghi di ristorazione disseminati per la città. Tra le rosticcerie più rinomate, per la gioia del palato, saltavano fuori “Borgia” e “Nunnari”, ma per ogni quartiere c’era di che scialarsi, rifarsi dai grandi patimenti del prima, durante e dopo guerra, quando si ricorreva al mercato nero (intrallazzo). Ai fumatori sembrava un sogno poter acquistare in tabaccheria le sigarette di marca nazionale ed estera. In molti ricordavano le stampatelle, ricavate dalle cicche lasciate per terra dalle truppe alleate. Altra preziosità la scatola di fiammiferi da tenere in tasca pronta all’uso. Ci riferiamo al periodo in cui s’usciva di casa con la sigaretta accesa e si “appicciasse” mezza città. Durante l’oscuramento il puntino rosso che si scorgeva a distanza era attrazione fatale, mentre correva la frase: «Scusi, mi farebbe accendere?».

In quanto ai gelati costituiva status simbol il Ritrovo Irrera, per i dolci c’era l’imbarazzo della scelta, come per coni e granite caffè con panna. Frotte di soldati in libera uscita a rotazione continua rendevano rassicuranti le vie più solitarie a fine di ogni spettacolo teatrale e cinematografico, proiettato nelle cinquanta e passa sale sparpagliate per la città. Sempre nel 1956, tra i film più visti ci fu “La Rosa Tatuata” con Burt Lancaster e Anna Magnani che vinse l’Oscar. Nacque la stella Nannarella, ma tramontò l’astro Grace Kelly, che in quell’anno sposò Raneri III di Monaco e, da principessa, le fu imposto di passare da diva del cinema a first lady del Principato.

Le cornamuse, sublimi emissari del Natale, sapevano di “ninne nanne”. I ciarammidari calavano dai paesi vicini alla città e dalla provincia. Tra i più bravi c’erano i castanoti, i massoti e i montalbanesi, come afferma mons. Francesco Bruno nel bollettino del Santuario di Montalto del dicembre del 1921, luogo dove dava fiato alla zampogna mastru Paulu “u turnaturi”, che abitava in contrada Santa Rosalia. Indossava il costume di prammatica, cioè giacca di velluto scuro sopra cosuneddhi stretti coi ligacci sotto i ginocchi. Completava la tenuta una cappotta di “n’incirata” e un birrittuni di pilu, oppure la “mèusa” parata a sghimbesciu sulla testa crinuta. Era munito, infine, di un grande parapioggia portato a tracolla, mentre ai piedi calzava zampitte o calandrelle, tenute da lunghi lacci. L’insieme conferiva al personaggio un aspetto singolare che sapeva d’antico, di magica notte lunare al tempo in cui la stella cometa indicava a pastori e magi la Grotta della Natività.

Tra la moltitudine di edicole votive sparse per la città, il serrato numero di attività commerciali di via Maddalena, racchiuso nel breve tratto di strada tra la via Dei Mille e il viale San Martino vantava e vanta l’icona di San Giovannino con l’agnello. Incastonata sul prospetto dell’isolato 145, che è tra gli edifici scampati al sisma del 1908, la sacra immagine era rallegrata dal suono della zampogna di zù Vanni Camarda. L’icona, riparata da una tettoia curvilinea, presenta la classica tipologia del frontone centinato a conchiglia che, sotto la mensola, reca scolpita la data di realizzazione coeva al terremoto. Ci sarebbe da pensare che zù Vanni fosse sospinto dal devoto entusiasmo del nutrito gruppo di commercianti che aveva bottega, o addirittura casa e “putìa”, in quel famoso gruppo di stabili ottocenteschi dai mezzanini spioni. C’erano gli orafi Grillo e Burrascano; Lo Prete bilance; panificio Cardile; la fabbrica del ghiaccio Gemelli; Repinto macellaio; Panzera elettricità; pescheria Marchese; la torrefazione Micali; Ciocci arrotino; Taffara ferramenta; Zucco cestaio; Patanè scarpe; il sarto Pedelì; Roberto abbigliamento e le salumerie Salvo e Felicetta Calarco, zia di Nino, l’ex direttore della Gazzetta del Sud. Considerati i naturali passaggi generazionali, dismissioni e quant’altro, della folta schiera sono rimasti soltanto la gioielleria Bilardo, la cartoleria con vendita di giornali, già della signora Italia e, dulcis in fundo, il negozio di drapperie De Pasquale che, ieri come oggi, nel retrobottega ospita un cenacolo di intellettuali, sofisticati collezionisti, tifosi di calcio, professionisti, liberi pensatori con “stoffa” d’artista. Nel 1996, la tradizione novenistica messinese riemerge con Luciano Tringali (canto), Nico Tringali (mandolino) e Giorgio Trifirò (chitarra), chiamati a suonare in via Maddalena sotto la ricordata icona di San Giovannino con l’agnello.

Ogni quartiere s’adoperava per rendere unico il Natale, evento fondante la stessa fede cristiana. Il suono delle ciaramelle giungeva dolce, ciondolante per strade e abitazioni dove, nella stanza “buona” troneggiava il Presepe. Le traverse più battute aprivano alla festa con addobbi originali e pertinenti ai prodotti in esposizione. Via Nino Bixio e non solo, a sera era nota per lo scialo di luci al neon e pregevoli rappresentazioni presepiali spesso ad opera della rinomata scuola messinese dei pasturari, che si esibiva soprattutto nelle chiese e nei circoli. Risaltavano i fruttivendoli che realizzavano la “cona” con fronde vegetali verdi di “spinapulici”, “sparacinu” e “mbriacheddi”. Le arance erano avvolte nella stagnola, mentre i mandarini contornavano il Bambinello tra noci, mandorle e nocciole (scacci), punteggiate da datteri, mentre pendagli di pomodoro a scocca, pari a stelle filanti, calavano dall’alto.

Sin dall’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, per strada s’incontravano pure cantastorie orbi che allietavano le loro litanie col suono del violino o della chitarra. Un picciotto, che agitava l’azzarino (triangolo) li guidava lungo i percorsi di devozione urbana e a visitare i parrocchiani per rinnovare l’impegno di celebrare la novena. Era rinomato per la voce imperiosa il suonatore di liuto, mastro Carmelo Laurino, inteso “Ammazzapadre”, che indossava un abito nero con calzoni e fibbie al ginocchio, cappello a cilindro, calzato su berretto di seta scuro. Un suo discepolo, don Lio Corso, per seguire suppergiù l’abbigliamento del maestro si buscò il soprannome di “Cappiddazzu”. La variante consisteva nell’aggiunta di uno scolorito tabarro alla spagnola e sul berretto, la tuba. Offriva le sue novene ai commercianti che avevano bottega nei pressi del Duomo. Si presentava davanti alla porta con la mano sinistra appoggiata sulla spalla del garzone che era pure addetto alla sonagliera e, con la destra agitava il violino per segnalare il tipo di prestazione musicale. Fino a prima della seconda guerra mondiale rimasero attivi mastru Natale Costa, don Petru u sonaturi e Sariddhu u curtu. L’ultimo dei novenatori fu mastru Vito Pagano, che s’avvaleva del violino suonato dal figlio Felice, oltre al supporto ritmico della chitarra di Stefano Celona.

Il suggestivo lumeggiare all’acetilene conferiva particolare attrattiva alle bancarelle di castagnari, tajunari, porchettai, lumacai e formaggiai. In quanto ai trippai gli conferì dignità letteraria Vasco Pratolini nel libro “Il quartiere”, edito nel 1948 dalla Vallecchi. Ogni cibo aveva la sua voce, un interminabile “bannio” con specifiche tonalità e modulate gradazioni che rendevano la città vivace, mai frastornante. Il lessico degli ambulanti era essenziale, spontaneo, flatuato al punto d’avere ispirato parecchie canzonette e, addirittura in Verdi, la sublime area della “Donna è mobile”. A insaporire i maccaroni di strada l’unico condimento era il cacio e all’occorrenza il peperoncino, sosteneva Alessandro Dumas padre. Bisogna ammettere che furono i migranti a diffondere nel mondo la pasta, regina delle pietanze, nutrimento preferito da ricchi e poveri.

L’affaccio degli alberi di Natale s’avvertiva soprattutto nei balli organizzati alla Camera di commercio, ai padiglioni della Fiera campionaria, al Comune, alla Società operaia… La moda povera capitava che putisse di stantìo. Si doveva all’abito buono della madre che, con i dovuti accorgimenti, era passato alla figlia. Le feste si svolgevano con semplicità, la droga era lontana al pari della violenza sulle donne! La baldoria trovava il suo clou a Capo danno, quando i botti erano determinati non solo dai fuochi di artificio, ma anche dagli oggetti che la gente, per tradizione, buttava da finestre e balconi. Cumuli che capitava finissero in scoppiettanti falò. I ragazzi a turno congegnavano di ballare in casa, sbaraccando la “buffetta” che ingombrava ambienti di per sé angusti. Era essenziale possedere un grammofono che, collegato alla radio, ne amplificava il tono della musica. I nonni pretendevano il gioco della tombola per la gioia dei più piccini. Sulle cartelle i numeri sorteggiati erano segnati perlopiù con chicchi di fagioli che, a fine gioco, le solerti donne di casa badavano a raccogliere, essendo stati sottratti alla zuppa del venerdì. Il pranzo di Natale pretendeva pietanze più succulente preparate alla vecchia maniera, per cui si tornava ad assaporare cibi tradizionalmente prelibati che appartengono alla cucina messinese. Al circolo della stampa, presidente Oscar Andò che divenne sindaco della città, s’impiantava la roulette. I giocatori incalliti e probabilmente più danarosi preferivano il Casinò di Taormina, gestito dal comm. Guarnaschelli.

Ogni Natale cerca la quiete dopo la tempesta. Oggi come ieri la pace è minacciata da focolai di guerra sfilacciati per il mondo. La paura corre sul filo di dilanianti e vili attentati terroristici. I novelli Erodi giocano col nucleare, mentre i Ponzio Pilato sostanzialmente lasciano fare! Gli strateghi della finanza sostengono, alla maniera di Shakespeare nell’Amleto, che «C’è molta logica in questa follia». La lieta novella della Natività riconduce alla speranza, al ravvedimento e al desiderato richiamo alla sacralità della vita.

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