È tornato a essere il simbolo dei mali messinesi. Il risanamento mancato, anzi rimasto incompiuto. E quelle immagini di Fondo Fucile, ritratte dalle telecamere di “Nemo” della Rai nel giorno delle elezioni regionali e che hanno fatto il giro d’Italia, suscitano vergogna, sgomento, oltre a una scia di polemiche e di precisazioni.
Accendere le luci, e aprire gli occhi, sulle condizioni di disagio vissute da ampi strati della popolazione, è più che meritorio, è indispensabile. Ma noi che abbiamo raccontato, nei decenni, milioni di volte, la realtà delle “favelas” di casa nostra, abbiamo il diritto-dovere di fare chiarezza, sgombrando il campo da qualche equivoco di troppo.
È stato detto:_da più di cent’anni la gente vive qui in baracca. Ed è una menzogna. L’area di Fondo Fucile è stata sbaraccata per ben due volte, nel Dopoguerra e negli anni Settanta, e ben presto sono tornate le casette in muratura, tra piccole villette con i tetti in amianto e veri e propri tuguri. È stato detto: vi abitano migliaia di famiglie. Ed è un’altra menzogna. Ne hanno censite circa 150, parte delle quali si sono introdotte da non molti anni nelle abitazioni, sperando di avere il diritto alla casa popolare. Fondo Fucile è una sorta di “belvedere” del degrado, come le Vele di Scampia. Li portano tutti qui, prima degli appuntamenti elettorali, i leader o presunti tali. Ricordiamo, negli anni più recenti, il faccione sorridente di Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, accanto allo sguardo assorto del giovane promettente astro nascente del Centrosinistra messinese, l’allora sindaco Francantonio Genovese. Ma, più o meno, ci sono passati tutti, dai tempi di Rino Nicolosi – il presidente della Regione a cui si deve la legge 10 del 1990, quella dei famosi 500 miliardi di lire destinati allo sbaraccamento delle aree degradate di Messina – fino ai “santini” distribuiti dall’attuale capogruppo di Forza Italia Pippo Trischitta. Su Fondo Fucile ricordiamo altresì le battaglie condotte dall’ex capogruppo del Partito repubblicano all’inizio degli anni Novanta, Pietro Currò.
Ma è cambiato poco o nulla. Sono rimaste le baracche – che, lo ripetiamo fino alla nausea, nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con il terremoto del 1908, se non per il retaggio della “cultura della baracca” che pervade Messina e il suo territorio –, così come tutto ciò che ruota attorno a esse, il piccolo grande “business” degli affitti e delle compravendite in nero, delle occupazioni abusive e delle promesse elettoralistiche.