Un «popolo che elegge corrotti, impostori, ladri e traditori, non è vittima. È complice». George Orwell ci indica la strada. Cominciamo da qui, così almeno ci risparmieremo nel prossimo quinquennio i piagnistei. Il solito peloso garantista ci dirà che siamo apodittici e disfattisti. In tutta franchezza questa volta non ce la sentiamo di turarci il naso: da talune liste, sparse qua e là nei collegi provinciali, si sprigionano olezzi nauseabondi. Pur di raccattare voti e conquistare Palazzo d’Orleans, c’è chi ha chiamato alle armi condannati in primo grado, riciclati, voltagabbana, inquisiti a vario titolo e, in alcune ben individuate circostanze, collusi con la mafia. Insomma, saccheggiatori politici che non ce le fanno proprio a uscir di scena. Va da sé, tutti accomunati dalla convinzione che i magistrati siano dei persecutori e che il tempo curerà ogni ferita penale aperta. Perché ingiusta.
Tutto questo, dicevamo, per conquistare Palazzo d’Orleans, perché per come si sono messe le cose, comunque vadano, è difficile immaginare che a Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale, possa prendere forma il 6 novembre una maggioranza evidente. E neppure una risicata. Ciò significa che il presidente eletto, da qualunque area politica provenga, dovrà cercarsi il consenso in aula giorno per giorno. Sarà un Vietnam sin dalla seduta d’insediamento, quando si dovrà votare per l’ufficio di presidenza dell’Ars. E poi toccherà alle Commissioni.
Il centrodestra è lo schieramento più compatto, un carro accogliente che punta dritto alla riconquista del potere isolano dopo le tenebre crocettiane. E se dovesse tagliare per primo il traguardo, non ci stupiremmo nel registrare salti della quaglia da un fronte, ovviamente perdente, a un altro, vincente. All’Ars accade con normalità, figuriamoci se non dovesse accadere in men che non si dica quando c’è perdippiù l’opportunità di alzare il prezzo della strategica adesione.
Il centrosinistra arriva al voto spaccato per via della guerra in corso tra Matteo Renzi e la vecchia guardia dalemiana-bersaniana, che ha messo in campo Claudio Fava con l’obiettivo dichiarato di impedire la vittoria a Fabrizio Micari, pupillo di quel navigatore solitario che risponde al nome di Leoluca Orlando. Il messaggio della sinistra è chiaro: senza di noi non esiste una coalizione vincente, ma perché ci sia una coalizione vincente, in modo particolare a Roma, Renzi deve sgomberare il campo. E così la Sicilia diventa ancora laboratorio, ma di un regolamento di conti.
Il Movimento Cinque Stelle, come il centrodestra a trazione forzista-salviniana, ringrazia e punta a scalare l’Everest. Sanno, Grillo e compagnia, che se trionfano in Sicilia potranno urlare al popolo che il “Rosatellum” è architettura elettorale eretta per impedire ai pentastellati di conquistare il governo nazionale. E si andrà avanti a spallate.
È possibile immaginare che in questo contesto a qualcuno interessassero davvero i problemi dei siciliani? Ovvio che no. E infatti non s’è parlato di programmi, ad eccezione della riesumazione di vecchi e utopistici progetti: da un nuovo “Piano Marshall” per immettere preziose risorse finanziarie sul tessuto economico della regione, al Ponte sullo Stretto e al casinò di Taormina. Neanche avessimo l’anello al naso. O forse ce l’abbiamo. E comunque, avremo quel che meritiamo.