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«Né odio né vendetta, ma ci sentiamo traditi»

«Né odio né vendetta, ma ci sentiamo traditi»

«Noi non coltiviamo né odio né sentimenti di vendetta verso chi è risultato maltrattare nostra figlia, ma continuiamo a volere la verità, la verità completa sulla morte di Eleonora. E per questo manifestiamo apprezzamento per la serietà e per la professionalità del lavoro d’indagine che è stato condotto dal sostituto procuratore Marco Accolla nell’analisi del caso».

È questo il primo commento, le lacrime nel fondo dello sguardo, che l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe Cubeta e la moglie Fiorella Moschella fanno in merito al provvedimento di chiusura indagini relativo al caso della morte della trentenne Eleonora Cubeta. La loro figlia amata e piena di vita, che in quei giorni conversava col papà del miglior motorino da comprare per il nuovo posto di lavoro, e che improvvisamente viene trovata morta con un cappio al collo nel suo appartamento di Contesse la notte del 5 settembre del 2015. Mamma Fiorella, assistente sociale in neuropsichiatria infantile, fa un’aggiunta a cuore aperto: «La rabbia, inevitabilmente, c’è: alla luce di quanto evidenziato dalla Procura, ci sentiamo traditi da quel ragazzo in cui, quand’erano fidanzati, avevamo riposto tutta la nostra fiducia trattandolo come e meglio di un figlio. Io penso alla sofferenza di mia figlia, alla solitudine disperata in cui – secondo l’indagine – sarebbe stata lasciata morire.

La ricerca della verità della famiglia Cubeta cominciò la mattina del 6 settembre, quando padre e madre tornarono dalla Bulgaria dove, come una tremenda coltellata al cuore, li aveva raggiunti la telefonata di un carabiniere della stazione di Gazzi che non dimenticheranno mai. Quella notizia impensabile che da oltre due anni li ha catapultati in una tragedia senza senso. La perdita più straziante e un “suicidio” da loro giudicato subito per nulla convincente, del tutto svincolato dalla realtà e in contrasto con le premure che lei aveva verso di loro, anche per le minime cose. L’indagine parve incanalarsi all’inizio verso un’unica ipotesi, il suicidio appunto, ma poi è virata in direzione di un atto sempre “suicidiario” che però Eleonora avrebbe compiuto come conseguenza di altro, ovvero – secondo la Procura – in un contesto di ripetute umiliazioni e maltrattamenti da parte dell’ex convivente che poi, sempre secondo l’accusa, l’avrebbe lasciata sola nell’epilogo altamente drammatico dell’ultimo incontro. Da qui a carico dell’ex fidanzato, l’ipotesi di reato racchiusa nell’articolo 572, secondo comma, del Codice penale, formulata dalla Procura. Il reato di maltrattamenti del convivente la cui pena è assai aggravata (da 12 a 24 anni) quando dal fatto deriva come conseguenza la morte, anche con suicidio, della vittima dei maltrattamenti.

L’accusa, che va provata in giudizio, è il risultato di un’indagine ampia, concretizzatasi in un atto di 1600 pagine. Questo faldone è adesso sottoposto all’esame dei legali della famiglia Cubeta (gli avvocati Giusy Abbate e Luca Frontino, il consulente, ex generale dell’Arma, Luciano Garofano) e al contempo all’analisi del giovane indagato e dei suoi difensori, gli avvocati Pietro Fusca e Benedetta Sanfilippo.

Entro 20 giorni dalla notifica, i legali dell’ex convivente possono presentare memorie, documenti o documentazione d’indagine difensiva, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti, e lo stesso giovane presentarsi per rilasciare dichiarazioni o essere sottoposto ad interrogatorio. E proprio l’esercizio di questi ultimi diritti appare ora tra i più probabili. «In questo momento – spiega l’avv. Pietro Fusca – stiamo analizzando gli elementi contenuti all’interno di 1600 pagine, ed è verosimile che, appena vedremo quali sono gli elementi precisi contestati, il nostro assistito si presenterà spontaneamente o chiederà d’essere interrogato, per fornire ai magistrati i chiarimenti del caso».

L’avvocato Fusca tiene a chiarire un passaggio: «Il nostro assistito, nella fase iniziale dell’indagine, è stato assunto a sommaria informazione ed ha risposto dettagliatamente, quale testimone, a tutte le domande rivoltegli dai carabinieri su quanto accaduto quel giorno. Poi, molto tempo dopo, è stato convocato di nuovo in quanto, improvvisamente, da cittadino veniva trasformato in un indagato: a quel punto, si è scelto di non rispondere ma non certo perche lui non volesse collaborare, come qualcuno ha insinuato a livello nazionale dentro una ricostruzione a senso unico di una storia tra fidanzati fatta di alti e bassi, di litigi e incomprensioni come capita ai giovani. Ma solo perché come suoi legali abbiamo ritenuto che fosse più saggio avvalersi del diritto di non rispondere, essendo noi all’oscuro degli argomenti che erano stati raccolti dall’accusa, ascoltando in gran numero – come possiamo riscontrare oggi – familiari, amici e vicini di casa»

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