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Tra Tibet e lo Stretto, il respiro della compassione

Tra Tibet e lo Stretto, il respiro della compassione

«È da anni ormai che abbiamo questo legame profondo apparentemente inspiegabile». Il Dalai Lama stringe la mano al sindaco di Messina e, mano nella mano, affronta l’intera conferenza stampa, scandita da sorrisi e da altri gesti affettuosi nei confronti del suo “discepolo”. Non si era mai visto un rapporto così stretto, proprio come quello di un “maestro” e del suo allievo. Tenzin Gyatso ringrazia pubblicamente Renato Accorinti e tutti coloro che fanno conoscere al mondo la causa del popolo tibetano. «Qui siete al livello del mare, noi veniamo dalla nazione più alta del mondo, Lhasa, la capitale, è a 3.500 metri d’altezza». Eppure, c’è un filo invisibile che unisce ed è quello che dovrebbe governare le sorti del pianeta: l’afflato della compassione, che è un sentimento universale, che travalica confini e «differenze secondarie», che vanno relativizzate, perché l’unità degli esseri è la cosa più importante al mondo, al di là delle razzi, delle fedi, delle classi sociali, dei Paesi dove si è nati o dai quali si fugge.

L’esilio di un popolo e la tragedia delle nuove migrazioni. Alla domanda di uno dei giornalisti presenti nella saletta dell’hotel sul corso di Taormina, il XIV Dalai Lama risponde ricordando la propria esperienza di “esiliato” e di “rifugiato”. «Ma io mai – ripete – in questi 58 anni da quando sono stato costretto ad andare via ho pensato di non dover o non voler più ritornare in Tibet. Quello è il desiderio più grande della mia vita. E così deve essere per tutti quelli che lasciano i loro Paesi dove ci sono fame, guerra, carestie e vengono qui, in questa terra che li accoglie. Cercare rifugio ma per tornare, non per abbandonare la propria patria». E sui migranti il Dalai Lama è chiarissimo: «Bisogna includere, non respingere, facciamo parte tutti della stessa umanità».

I conflitti, quelli interpersonali e le guerre tra nazioni, sono il frutto di una concezione che va radicalmente cambiata, con un’opera di “controllo della mente” e con campagne educative che partano dagli asili e dalle scuole. Il Dalai Lama si dice spaventato per quanto sta avvenendo nella Corea del Nord ma conferma anche la sua disistima totale nei confronti di Donald Trump: «Non mi piacciono le dichiarazioni del presidente degli Usa». E il concetto lo ribadirà anche durante l’incontro al Teatro Antico: «L’America è la nazione leader del mondo libero, non può pensare solo a se stessa, deve fare da guida».

Il capitolo cinese è quello più delicato da affrontare. La Cina che ha occupato il Tibet e che considera il Dalai Lama un impostore e un sovversivo, è la stessa nazione che, non con le armi da guerra ma con quelle dell’economia, ha invaso intere zone dell’Africa e che fa affari giganteschi nel mondo occidentale. Un colosso contro il quale la battaglia di un piccolo popolo disperso ormai sembra senza alcuna possibilità di vittoria. Eppure, il leader spirituale del buddhismo tibetano non ha mai perso la speranza in tutti questi decenni: «Ci sono milioni di cinesi che stanno dalla nostra parte, come l’India che ci ha accolto e tanti altri popoli».

E nel buddhismo il rispetto per ogni singolo individuo coincide con la visione globale: «Io sono venuto qui non come il XIV Dalai Lama ma come uno dei sette miliardi di uomini e donne che abitano il pianeta, siamo tutti nella stessa condizione, come dimostra ad esempio la questione del riscaldamento globale. Tutti ne paghiamo le conseguenze e tutti dobbiamo concorrere a realizzare la Pace, che non potrà mai essere instaurata con la violenza e la sopraffazione». E il messaggio è diretto ai Grandi della terra, a coloro che qualche mese fa erano proprio qui, a Taormina, a celebrare il G7: «Mai più conflitti, mai più egoismo». Santi e illuminati hanno questa missione, anche se la loro spesso è solo una voce che urla nel deserto.

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