Che sia in corso da anni un processo quasi inarrestabile di desertificazione demografica, è sotto gli occhi di tutti. Che Messina abbia perso, nel corso degli ultimi tre decenni, circa 15 mila abitanti, è un dato statistico confermato da tutti i report in materia, dai numeri dell’Anagrafe e dai censimenti generali della popolazione. Ma non ci si può fare l’abitudine a cifre demoralizzanti come quelle che riguardano la fascia più importante di una città, quella compresa tra i 18 e i 30 anni. Cifre che collocano – stando ai risultati dello studio Istat commissionato dal settimanale “L’Espresso” – Messina al secondo posto nella classifica nazionale delle città che hanno perso più ventenni dal 2008 a oggi. Quattromila: sono le ragazze e i ragazzi che hanno fatto la valigia, andati via per studio o per lavoro, nessuno o quasi poi ritornato in riva allo Stretto. La spina dorsale della città dei prossimi decenni, che si volatilizza, che cerca riparo altrove, perchè qui si parla di tutto, tranne che della vera questione cruciale: un grande piano di sviluppo che crei occasioni di lavoro e che rilanci l’occupazione giovanile.
Ci batte solo Napoli, dove poco più di seimila ventenni sono andati via nell’arco di otto anni. Seguono a ruota altre città del Sud, Taranto, Reggio Calabria, Palermo, Bari, Cagliari. Ma vi sono Comuni che non sono più “per giovani” anche al Centro e al Nord, e non solo i paesi di montagna, come ad esempio Carrara, in Toscana, Nichelino in provincia di Torino, Fano nelle Marche, Frosinone nel Lazio, la Prato dei cinesi sempre in Toscana.
«È lo specchio del declino», osservano giustamente gli analisti. Quando l’unica prospettiva per chi esce dalla scuola o dall’Università è partire con biglietto di sola andata, come si può immaginare un futuro per una città incapace di disegnare altri orizzonti? E non è il solito vittimismo-piagnisteo di noi meridionali, e di noi buddaci in particolare, no, è la lucida, crudele analisi di un fenomeno al quale assistiamo in modo occulto giorno per giorno, ma che diventa visibile in tutta la sua drammatica portata quando ci vengono spiattellatti in faccia numeri e cifre dei report degli esperti.
Siamo scesi da più di 252 mila abitanti a 238 mila, e il calo sta proseguendo. Di questi 14 mila messinesi emigrati, 4 mila sono compresi nella fascia tra i 18 e i 29 anni. E nonostante gli ammirevoli sforzi della nostra Università e di soggetti quale l’Agenzia nazionale giovani diretta dal messinese Giacomo D’Arrigo, i segnali attuali non lasciano prefigurare alcuna inversione di tendenza. Fra qualche anno potremmo essere costretti a commentare altri numeri, altre cifre riguardanti i diciottenni-diciannovenni di oggi, i ragazzi della generazione compresa tra la fine Novecento (i 1997, 98, 99) e la prima decade del nuovo Millennio.
Andare per tornare, è un conto. Sarebbe solo motivo di arricchimento, per la persona che va a fare esperienza fuori e per l’intera comunità che ne potrebbe beneficiare nel prossimo futuro. Ma andare e basta, perché sì Messina è bella, ha un paesaggio invidiato in tutto il mondo, si mangia bene, e che buoni gli arancini e deliziose le granite, e tutta la solita nostra tiritera sulle tante bellezze che abbiamo e sul fatto che non riusciamo a valorizzarle adeguatamente, ma poi alla fine «non offre niente», è un segno di resa, è la bandiera bianca che sventola sul ponte (il Ponte che non c’è e che forse avrebbe potuto cambiare le sorti di questo territorio). Quel «non offre niente» sentito da chiunque abbia in casa giovani, è quel «papà, mamma, ma io che devo fare a Messina?», è come una fucilata, un urlo di rabbia represso, un atto implacabile di accusa a tutti noi, a quelle generazioni di messinesi, dei quarantenni-cinquantenni-sessantenni-settantenni, che non sono riuscite (non siamo riusciti) a creare le condizioni perchè questa città potesse avere un’anima, un filo conduttore, una vera strategia di sviluppo, una dotazione infrastrutturale degna di questo nome e servizi moderni ed efficienti in grado di assorbire, grazie alle nuove tecnologie, la manodopera giovanile e far da richiamo ai “cervelli in fuga”. E oggi non ci resta che il secondo posto della peggiore delle classifiche nazionali: quella delle città che hanno smarrito il futuro.