Messina

Lunedì 25 Novembre 2024

Riforma dei porti, pronto il ricorso al Tar

Riforma dei porti, pronto il ricorso al Tar

Un ricorso al Tar e l’invio di un documento ai componenti della Commissione Trasporti di Camera e Senato. Più si fa delicata la posta in palio, più occorre alzare il livello della sfida. Ed è quello che hanno deciso di fare i responsabili della Rete civica per le infrastrutture, assumendo un’iniziativa che punta a spezzare l’incredibile silenzio delle forze politiche sulla vicenda dell’accorpamento dei porti di Messina-Milazzo con Gioia Tauro e tutti gli altri porti calabresi. Nel ricorso, predisposto dall’avvocato Fernando Rizzo, si evidenzia l’illegittimità della riforma targata Delrio e si chiede che il Tar intervenga bloccando le procedure, riportando poi la questione cruciale davanti alla Corte Costituzionale.

Ed è proprio incentrato sulla riforma della portualità e della logistica in Italia il documento sottoscritto, oltre che dallo stesso Rizzo,, dall’ing. Giovanni Mollica e dai professori Enzo Siviero e Massimo Guarascio. «Non c’è sviluppo senza coesione, non c’è coesione senza mobilità, non c’è mobilità senza infrastrutture». Il concetto analizzato e approfondito da Giustino Fortunato e Francesco De Sanctis già alla fine dell’800, è la premessa dell’approfondita analisi sulle cause del mancato sviluppo del Sud, che si riflette negativamente su tutto il territorio nazionale. «Consideriamo insensato un Piano strategico nazionale della portualità e della logistica – scrivono i rappresentanti della Rete – nel quale gli scali dell’estremo Sud sono relegati alla sola funzione di transhipment, col risultato di escluderli da ogni possibilità di crescita. Da almeno un decennio, obiettivo di ogni porto dell’Europa meridionale (tranne l’Italia) è attrarre la maggior quota possibile dei flussi mercantili che trasportano merci e ricchezza nel Mediterraneo. Il risparmio anche di poche ore di navigazione dei giganti del mare contribuisce a determinare la scelta delle rotte. Avere puntato solo sui porti dell’Alto Tirreno e dell’Alto Adriatico, senza contemporaneamente dotare quelli dell’estremo Sud delle attrezzature e dei collegamenti necessari a renderli competitivi è stato un errore clamoroso che ha condotto a cedere quote di mercato a spagnoli, turchi e greci. Portando sull’orlo del fallimento gli scali siciliani, calabresi e pugliesi, impotenti davanti alla concorrenza dei nuovi porti africani. La destinazione a transhipment, sancita dal Piano Strategico (!) per i porti dell’estremo Sud, rappresenta il capolavoro finale di una politica dei trasporti totalmente sbagliata: Augusta, Taranto e Gioia Tauro richiedono 3 giorni di navigazione in meno rispetto a Genova e Trieste e almeno 10 meno rispetto a Rotterdam, Anversa e Amburgo; limitarne l’attività a scambi mare-mare, senza contatti col territorio circostante (che ne avrebbe disperato bisogno), li isola dissennatamente, ne impedisce la crescita e costringe il Governo a impegnare rilevanti risorse al fine di ridurre i rischi di drammatiche tensioni sociali. Così, Taranto è chiuso, Gioia Tauro in grave difficoltà, Augusta sopravvive grazie a raffinerie devastanti per l’ambiente e l’obiettivo di acquisire maggiori quote della portualità mediterranea è fallito.

Il momento propizio è passato e non c’è più il tempo per recuperare ma nascono altre opportunità: tutto il mondo sa che il continente del futuro è l’Africa. Nel 2050 toccherà i 2,5 mld di abitanti e, alla fine di questo secolo, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, raggiungerà i 4,2. Più di Cina e India insieme e con tassi di crescita superiori a quelli del Far East. Puntando sull’Africa, l’Italia può, in pochi decenni, ribaltare una situazione altrimenti priva di verosimili prospettive di sviluppo. Ostinarsi a competere o a porsi in posizione ancillare (come suggerito in alcuni documenti ministeriali) nei confronti del sistema logistico-industriale del Nordeuropa è una scelta dimostratasi perdente. Il futuro dell’Italia è a Sud e non dobbiamo farci trovare, ancora una volta, impreparati.

Purtroppo, l’insieme di opere pubbliche che il ministro Delrio ha annunciato di voler realizzare in Sicilia e Calabria appare ispirato a criteri opposti. In Sicilia e Calabria, oltre il 98% delle merci si muove su gomma e il trasporto su ferro è praticamente inesistente, con tutte le conseguenze negative dovute all’inquinamento. La ragione è banale: produzioni e consumi sono esigui e si muovono esclusivamente in ambito locale. Non vi sono quantità significative di merci da trasportare su percorsi medio-lunghi. L’allegato Infrastrutture del Def 2017 indica una strategia trasportisticamente incomprensibile: il completamento del Corridoio europeo scandinavo mediterraneo (ex Berlino-Palermo) che avrebbe dovuto portare la Sicilia in Europa e l’Europa all’interno del Mediterraneo, è rinviato a data da destinarsi, così come è praticamente annullata la costruzione del Ponte sullo Stretto.

Va premesso che la mancanza del collegamento stabile tra l’isola più grande del Mediterraneo e il continente europeo rappresenta un’anomalia planetaria, in quanto non esiste altra isola del mondo con una popolazione superiore ai 100 mila abitanti e distante meno di 2 miglia dal continente che non sia unita stabilmente con la terraferma. In spregio agli oltre 300 milioni spesi per il progetto definitivo – considerato nel mondo dell’Ingegneria un vero capolavoro - e a una penale da 1 mld che incombe sullo Stato italiano, il Def rimanda la realizzazione dell’opera a un non meglio identificato “esame di fattibilità finalizzato a verificare le possibili opzioni sia stabili che non stabili”. In sintesi, il Def 2017 consacra la volontà politica di emarginare le regioni dell’estremo Sud dal resto del Paese. Semplicemente incredibile. Appare, infine, quantomeno paradossale che Sicilia, Calabria e Puglia siano considerate la naturale destinazione dei flussi di migranti provenienti dalla Libia mentre Trieste, Venezia e Genova siano l’altrettanto naturale terminale dei ricchi flussi mercantili che escono da Suez».

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