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Gli affari di cosa nostra nella "città babba"

Gli affari di cosa nostra nella "città babba"

Messina città “babba”, anzi isola felice in cui avviare e coltivare certi affari. Cosa nostra catanese, stando a quanto emerge dall’inchiesta “Beta”, condotta dalla Dda peloritana e dal Ros dei carabinieri, ha deciso di sfruttare a proprio vantaggio questa situazione. Quasi sotto traccia, in maniera silenziosa, senza spargimenti di sangue, la “costola” guidata dalla famiglia Romeo ha indossato i panni dell’imprenditore.

«Una cupola con le mani su una città asfittica, impoverita, ove alla paura si aggiunge la rassegnazione, con un faticoso presente per gli onesti e un estremamente incerto futuro per i giovani», osserva il gip Salvatore Mastroeni nell’ordinanza di custodia cautelare. Un provvedimento di cui risultano destinatari 30 indagati, 20 dei quali gravati dalla misura di massimo rigore. Dodici, invece, coloro ai quali viene contestata l’appartenenza a un’associazione mafiosa, collegata al clan Santapaola-Ercolano di Catania. Differenti i ruoli all’interno. Secondo l’accusa, Vincenzo Romeo avrebbe diretto le attività illecite, selezionato e organizzato gli investimenti economici, individuato quali svolgere mediante prestanomi. Non solo: si sarebbe fatto carico della gestione degli interessi sul territorio, curando i rapporti con gli altri gruppi criminali. Senza dimenticare il lucroso ambito dei giochi illegali e delle scommesse clandestine. Francesco Romeo, sarebbe intervenuto in prima persona negli affari e nelle decisioni più importanti, ad esempio, stabilendo quanto mettere sul piatto dal punto di vista economico. A Biagio Grasso sarebbe toccato occuparsi delle imprese edilizie e degli affari con una società immobiliare, «nonché delle società formalmente appartenenti al gruppo Borella». Inoltre, avrebbe partecipato ai lavori pubblici e a ciò che riguardava l’andamento aziendale e societario. Più spicci i compiti di Benedetto e Pasquale Romeo («intervengono nella commissione di reati funzionali alla presenza criminale sul territorio», recita il primo capo d’imputazione), mentre gli interessi di Pietro e Vincenzo Santapaola erano radicati nei campi strategici della grande distribuzione. Corse di cavalli ed esecuzione di azioni illecite sarebbero state invece di competenza di Antonio Romeo e Stefano Barbera.

La “cellula” non tralasciava il remunerativo ambito dei giochi, attraverso l’opera di N.l., Marco Daidone e Giuseppe Verde. E poi c’era l’avvocato Andrea Lo Casttro, non organicamente partecipe all’associazione, che avrebbe messo a disposizione del sodalizio la sue conoscenze e competenze professionali.

Il perché delle mire della mafia etnea su Messina è spiegato in intercettazioni che vedono protagonista Barbera. «A Messina la chiamano la provincia babba... cretina... stupida... non succede nulla... non c’è un cazzo... solo problemi politici... è un’isola felice Messina... naturalmente se si può fare una cortesia tipo il lavoro e quant’altro io le ho raccomandato la situazione... questo sistema è sempre esistito».

Gli interrogatori, Scena muta di fronte al giudice

Hanno preso il via ieri gli interrogatori di garanzia dell’operazione “Beta”. Davanti al gip Salvatore Mastroeni, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per trenta indagati, si sono presentati alcuni dei soggetti gravati da misura di custodia in carcere. Nello specifico, Vincenzo, Benedetto, Pasquale e Antonio Romeo e Antonio e Salvatore Lipari hanno scelto di fare scena muta, sottraendosi così alle domande del giudice. Accompagnati dagli avvocati Antonello Scordo, Roberto Materia e Tancredi Traclò si sono quindi avvalsi della facoltà di non rispondere.

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