Prima sembrava che il peggiore rapporto con internet, fosse quello degli Hikikomori, gli adolescenti giapponesi che non escono più dalla propria stanza, abbandonano il mondo. Ma è arrivato il peggio: l’attentato subdolo ai ragazzi. La lenta sfida dai macabri rituali, quel “gioco” detto “Blue Whale” (Balena blu) che si è diffuso molto meno di quanto se ne parli, ma abbastanza per condurre al suicidio alcuni ragazzi in Russia e originare nel mondo, e in Italia, vari casi sospetti.
– Dottor Allone, cosa sta succedendo in tutt’Italia con le dipendenze da internet, e i rischi connessi?
«Riceviamo un numero sempre maggiore di ragazzi di 16-17-18 anni, ma anche molto più piccoli che perdono interesse alla scuola, hanno il ritmo sonno-veglia invertito. Prendono sonno alle 4 del mattino e si svegliano alle 2 di pomeriggio, vengono bocciati. Spesso vivono giorno e notte su piattaforme virtuali che li vedono impegnati senza più limiti in giochi come “fall out” o “second life” in cui costruiscono un se stesso virtuale, ma anche personaggi secondari, che finiscono per essere parti di sé, di una personalità multipla. Da questi eccessi, da questa chiusura, si può finire per diventar di situazioni come blue whale».
– Ma perché queste “dipendenze” diventano così ossessive?
«Queste diverse facce della propria personalità assumono una corporeità che appare più vera della realtà stessa. Sembrano gratificanti anche perché come le altre dipendenze, come la droga, sviluppano nel cervello meccanismi dopaminergici. Mi sono accostato a questo mondo di sfide virtuali e vi ho trovato dentro ragazzi e ragazze, che combattono in modo accanito e mostrano “competenze” in materia di armi virtuali».
– Dal punto di vista dei servizi pubblici, a chi può chiedere aiuto una famiglia?
«Fino a 18 anni può chiedere l’aiuto degli specialisti delle Neuropsichiatrie infantili, ai Centri di salute mentale. C’è anche – di regola per i maggiorenni ma non di rado, viste le urgenze, apriamo ai ragazzi – la nostra struttura semiresidenziale Camelot al “Mandalari”, l’unica pubblica a Messina.
- E, papà o mamma, come possono aiutare un figlio?
«Partiamo da un dato: i nativi digitali sono loro, i ragazzi. Io l’ho conosciuto, questo mondo, attraverso loro, ho dovuto inventarmi un modo di interagire con una serie di luoghi, ruoli e ambienti virtuali. Il genitore deve incuriosirsi e farsi raccontare, entrare col figlio “dipendente” in una relazione dinamica ma anche contenitiva, accogliente. E a questo punto, una volta che il ragazzo si fida della sua presenza, il genitore sarà congruente con il suo ruolo. Può incidere in vari modi, anche proponendo al figlio di spostarsi sul piano delle prove fisiche, di passaggio, tipiche dell’adolescenza. Io penso alle prove dello scoutismo, tipo il dormire in tenda o il passare un ponticello, a quelle di un gruppo sportivo, alla banda musicale del paese, al gruppo teatrale. Regaliamo a questi ragazzi strumenti musicali invece dello smartphone».
– Una sua esperienza...
«I miglioramenti di una ragazza in passato vittima di bullismo e raggiunta in rete da insulti distruttivi, dipendente da alcuni giochi di combattimento, in cui è bravissima. Un giorno le ho detto: ma perché non cambi questo tuo personaggio virtuale e, con tutti i tuoi followers, diventi un personaggio positivo. Ora gioca diversamente... Perché questi ragazzi nascondono risorse meravigliose. Sembrano chiusi in un guscio d’acciaio, come tartarughine, hanno invece un gran bisogno, e voglia repressa di parlare, di comunicare. Quando escono fuori da quel guscio, sono meravigliosi»
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