Rinvio a giudizio per i tre medici indagati nell’ambito dell’inchiesta sulle “Protesi d’oro”. Si tratta del prof. Letterio “Elio” Calbo, 68 anni, all’epoca dei fatti a Endocrinochirurgia del Policlinico; del suo vice, il prof. Massimo Marullo, 58 anni, e del dott. Enrico Calbo, 39 anni, figlio del prof. Elio, all’epoca specializzando nello stesso reparto diretto dal genitore.
Lo ha deciso ieri il gup Monica Marino, il processo inizierà il prossimo 28 settembre davanti ai giudici della prima sezione penale del tribunale. A chiedere il rinvio a giudizio per la Procura il pm Roberto Conte. I tre sanitari sono stati assistiti dagli avvocati Giuseppe Carrabba, Piero Pollicino, Piero Cami e Giuseppe Lattanzi.
A tutti vengono contestati, in concorso, i reati di falso materiale e falso ideologico del pubblico ufficiale, peculato e truffa aggravata, consumati nell’esercizio delle loro funzioni di dirigenti medici dell’Azienda ospedaliera, tra il 2011 e il 2013. L’attività investigativa della Sezione di Pg della polizia diretta dal vice questore Fabio Ettaro, e coordinata dal sostituto Antonella Fradà, fu avviata nel giugno 2013. I tre medici finirono nel giugno del 2016 agli arresti domiciliari.
È stato accertato che interventi di chirurgia estetica (mastoplastica) eseguiti dal prof. Massimo Marullo e dal dott. Enrico Calbo, venivano fatti risultare come necessari per la rimozione di patologie oncologiche, in realtà inesistenti.
La vicenda fu raccontata nei dettagli dal gip Tiziana Leanza, che nel giugno del 2016 siglò l’ordinanza di custodia cautelare. Si partì dall’esposto-denuncia dello stesso Policlinico, lo depositò il 24 maggio del 2013 l’allora direttore del dipartimento amministrativo Giuseppe Laganga.
La parte più drammatica raccontata dal gip era legata alle testimonianze di tutte le donne, dodici, sottoposte a mastectomia senza che ci fosse alcun bisogno dal punto di vista patologico, nel reparto di Endocrinochirurgia, all’epoca diretto dal prof. Elio Calbo.
Nel provvedimento il gip Leanza parlava per esempio di «... disarmante disinvoltura con cui gli indagati si prestavano all’esecuzione di interventi di chirurgia radicale al seno e successiva ricostruzione, in alcuni casi per finalità dichiaratamente estetiche, in altri a fronte di patologie di natura tale da non giustificare un trattamento chirurgico di simile portata, in altri, ancora per rimediare a errori commessi nel corso di precedenti interventi»; oppure di «... abituale utilizzo di protesi di provenienza “privata”, non fornite, cioé, dalla struttura ospedaliera pubblica di riferimento»; ed ancora di «... mancata effettuazione di esami specialistici sia prima dell’intervento, per definire la diagnosi, che dopo lo stesso, per confermarla».
Il gip scriveva ancora che «il complesso delle informazioni assunte all’esito dell’approfondita e puntuale indagine condotta dall’autorità inquirente, riletto alla luce delle risultanze della consulenza medico legale disposta sulla documentazione acquisita in atti, consente una ricostruzione dell’agire illecito degli indagati che non lascia adito a incertezze di sorta».