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Ardita: è la politica che lega le mani alla magistratura

Ardita: è la politica che lega le mani alla magistratura

Messina

Farà parecchio rumore, e non di sottofondo, il libro uscito ieri che già nel titolo è tutto un programma, “Giustizialisti - Così la politica lega le mani alla magistratura”. Lo hanno scritto a quattro mani per le Edizioni PaperFirts il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita e il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo.

Nella folgorante prefazione, Marco Travaglio “svela” che proprio i due magistrati hanno realizzato il suo sogno mancato, già preconizzato da Indro Montanelli, ovvero quello di spiegare in termini semplici e comprensibili la Giustizia, vera o presunta o negata, alla gente cosiddetta comune. E si tratta di due magistrati che lo hanno saputo scrivere, «... al contrario di tanti loro colleghi che si esprimono nel sanscrito del giuridichese e impiegano un quarto d’ora solo per dire “buongiorno”». Questo libro – scrive Travaglio –, è «... semplice e stuzzicante, provocatorio al punto giusto, che spiega a tutti i non addetti ai lavori i perché e i per come della giustizia italiana allo sfascio». Ed è con Sebastiano Ardita che ne parliamo.

Perché avete sentito l’esigenza di scrivere questo libro?

«Per fare chiarezza sulle ragioni che rendono difficili in Italia i percorsi della Giustizia. Per spiegare ai cittadini perché un processo può durare anche dieci anni, ed alle vittime dei reati come mai è possibile rivedere per strada dopo qualche giorno chi li ha derubati con uno scippo o entrando in casa».

Quale tesi di fondo sottende alle vostre considerazioni?

«Riteniamo che la grande parte della responsabilità sia da ricondurre alle inerzie ed alle contraddizioni della politica sulla giustizia che si è condotta negli ultimi anni. Anziché semplificare i processi, si è ingolfato il sistema, fino a portare ad esaurimento le energie umane che potevano essere spese per renderlo efficiente. Ma naturalmente il cittadino che esce deluso dalle aule di giustizia vede soltanto il giudice e normalmente non se la prende con chi fa le leggi».

Non sarà che vi arroccate su posizioni di guardia per giustificare il fallimento della Giustizia nel nostro Paese?

«Diciamo che vorremmo ampliare la prospettiva dei cittadini nel valutare le complicate questioni della giustizia, senza negare che, nel complesso, funziona male. Sarebbe molto più comodo assumere un atteggiamento burocratico, fare l’indispensabile ed allargare le braccia a quanti si rivolgono disperati ad un magistrato per denunciare le ingiustizie di cui sono vittime. Se ci sforziamo di far capire dove stanno i problemi è perché crediamo ancora nella possibilità che le cose possano migliorare».

Le leggi non le fanno i magistrati, ma voi siete parte integrante di ministeri e commissioni...

«Questo è inevitabile, perché scrivere le leggi, allestire, pensare ad una organizzazione dei servizi generali, gestire i rapporti internazionali, declinare i criteri gestionali delle norme di ordinamento penitenziario non sono attività che possono svolgere i politici. Devono occuparsene tecnici e per di più particolarmente qualificati. Il parlamento vota le leggi, ma i suoi componenti normalmente non le scrivono, ed è anche giusto così. Il problema sta proprio nel fatto che poi anche il contributo dei tecnici che stanno in commissioni o nel ministero, alla fine spesso non viene ascoltato».

Crede che si possa mutare rotta realmente o la vostra voce rimarrà inascoltata?

«Credo che per mutare rotta occorrerà che la classe dirigente del nostro Paese rinunci ad introdurre regole che impediscono di arrivare in tempi ragionevoli a decisioni effettive, e per fare ciò non deve temere che la giustizia possa rappresentare una minaccia per chiunque governi. Ma c’è un solo sistema per evitare di temere la giustizia: non violare la legge. E forse il problema è tutto lì. Dunque, tra la giustizia che non funziona e l’impunità per i potenti un nesso c’è».

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