Messina
C’è in “Macbeth” un soliloquio famoso, che il protagonista recita verso la fine della tragedia di Shakespeare: «La vita è solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più niente. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa niente». Basterebbe questo momento per apprezzare la recitazione di Franco Branciaroli, interprete e regista dell’allestimento visto al Vittorio Emanuele. Ma c’è di più, queste battute sembrano speculari al «Buffoni, buffoni, buffoni» che lo stesso attore milanese pronunciava in “Enrico IV” di Pirandello, visto a Messina all’inizio della scorsa stagione. Circostanza che ci dice come anche questa volta Branciaroli, sia pure in modi e con intenti diversi, mette in scena un protagonista che sa di recitare e il teatro che si mostra per quello che è: la riproduzione consapevole della vita in scena, senza rinunciare alla finzione. Confine oggi scivoloso e tormentato molto più di quanto questo modo, diciamo di recitare la recitazione, non fosse semplice e tradizionale ai tempi del teatro elisabettiano in cui operava Shakespeare. Del resto, il rimando alle abitudini del Seicento, o comunque al modo di fare il teatro all’antica, è ribadito da vari particolari, a cominciare dall’uso della macchina manuale per riprodurre il rumore dei tuoni o di strumenti e fischietti per i suoni della natura, o dal fatto che i ruoli femminili delle streghe sono affidati a uomini, e altro ancora.
La capacità straordinaria di Branciaroli è poi quella, ben nota, di alternare i toni. Declama, va un po’ fuori le righe (anche nei gesti) quando Macbeth usa la forza della voce anzitutto per dare coraggio a se stesso sulla strada della perdizione malefica; si accartoccia nella voce, e fisicamente anche sul palcoscenico, quando fa i conti con la propria (ex) coscienza di soldato leale (c’è anche il ricordo lontano di quando l’attore interpretava i testi di Giovanni Testori), in un’introversione che non può avere ascolto in nessuno, neppure nella moglie che anzi lo ha condotto per mano verso l’abisso, facendosi lei idealmente maschio. Non a caso, in questi soliloqui il Branciaroli regista mette accanto al Branciaroli attore una figura nera senza volto e gliela toglie nel monologo finale già citato, quando tutto è ormai perduto e davvero Macbeth può rivolgersi solo a se stesso.
Ne deriva uno spettacolo cupo e per nulla accattivante, dettato da una scenografia (di Margherita Palli) scarna e completamente nera; non fa nulla per piacere, i momenti di azione sono tagliati o rarefatti, i costumi (di Gianluca Sbicca) pur sontuosi richiamano i colori del sangue raggrumato, le luci (di Gigi Saccomandi) esaltano il bianco e nero. È un’ambientazione all’interno di una coscienza, c’è una dimensione da incubo; è l’esaltazione della scrittura scespiriana (qui nella traduzione del compianto anglista messinese Agostino Lombardo) che intreccia Storia (con la S maiuscola) e umanità (con la u minuscola). In più, come si è detto, una lezione di teatro all’antica. Non si può dire che sia uno spettacolo perfettamente riuscito, ma molto interessante e ricco di spunti, sì. Insomma, da vedere.
Accanto a un Branciaroli così mattatore, la Lady Macbeth di Valentina Violo è un po’ sbiadita e perde le necessarie sfumature del personaggio. Fanno il loro dovere gli altri: Tommaso Cardarelli, Daniele Madde, Stefano Moretti, Livio Remuzzi, Giovanni Battista Storti e Alfonso Veneroso. Produzione del Centro Teatrale Bresciano.
Applausi insufficienti e poco pubblico.
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