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Messina e la generazione del Dopoguerra

Messina e la generazione del Dopoguerra

Fu al tempo della guerra che debuttò l’oscuramento. Per dare del rimbecillito correva la battuta: “Chi sì, i l’Unpa?”. Era un servizio di protezione antiaerea affidato agli anziani. Al ruolo fu data dignità letteraria da Italo Calvino che, negli anni Cinquanta, pubblicò tra i racconti: “Le notti dell’Unpa”.

Dopo l’armistizio, alla spicciolata i ragazzi tornarono a scuola, ma non erano più gli stessi, i patimenti li avevano resi troppo maturi per sottostare a programmi che appartenevano alla spensieratezza del passato. Gli ordigni inesplosi costituirono curiosità morbosa, attrazione fatale, causa di parecchie mutilazioni tra i giovanissimi. Malgrado le privazioni la vita riprese difficile e all’ombra della borsanera, mutuata in “intrallazzo”, termine che faceva il paio con “n’brogghia”, quando si fiutava l’imbroglio, specie nel contrabbandato.

Oggi imperversa la lingua inglese, mentre del tedesco hitleriano rimane crudele traccia. Le colorate mescolanze di “snack” e “fast-food”, di cui fu antesignano l’American Bar sulla via Garibaldi di fronte alla Chiesa dei Catalani, sorprendevano il sano panino imbottito della rinomata salumeria Triglia in via dei Mille.

Un paio di porte appresso faceva seguito la botte di vino da Bruschetta, bivacco degli alcolisti e “droga” d’annata. Tra gli affezionati clienti c’era il prof. Giovanni Zambelli, un luminare della facoltà di matematica. Per la Festa della Matricola Il carro allegorico relativo al suo istituto recava un enorme fiasco di cartapesta. Sempre nell’aria della mitica pasticceria Billè, la cui chiusura mortifica un angolo nevralgico della città, esattamente in via Tommaso Cannizzaro c’era D’Agnino, cioè l’eccellenza dei pizzicagnoli. A raffica arrivarono le rosticcerie Borgia e Nunnari.

In quanto a dolci, regina della nostra città era e resta, la tutta nostrana pignolata. Il cibo “vegano”, senza saperlo né volerlo, era praticato ai tempi oscuri della guerra, quando la cicoria costituiva pasto unico. Con la normalità il pesce tornò sulle mense dei messinesi. La prime feluche attrezzate per la cattura del pescespada, galleggiavano su cimiteri di navi colate a picco. Della flotta dei ferry boat, che era stata risparmiata dal maremoto del 1908 e in parte utilizzata per ospitarvi gli uffici del Comune e della Prefettura, dopo i bombardamenti del 1943 rimase solo il “Messina” detto “jaddinaru”.

L’auto era considerata un lusso, le biciclette un ago nel pagliaio, nonostante gli pneumatici pieni arrecassero rigidità al mezzo. Finalmente arrivarono le motorette e fu uno scoppiettio di “Lambrette” e “Vespe” nel crescente traffico.

Accese le luci dell’entusiasmo il night estivo “Irreramare” con largo affaccio sull’onda della storia. Le ragazze la “movida” del tempo la vissero sconocchiandosi in sambe, conghe e cha-cha-cha. Cercavano l’anima gemella con la complicità di orchestre famose del calibro di Havana Cuban Bois, don Marino Barreto, Xavier Cugat e la seducente moglie, Abbe Lane. Era tanta l’affluenza alle due piste in uso che si ballava a turno. Lo determinava una coccarda di vario colore, compresa nelle 200 lire del biglietto d’ingresso. Era d’obbligo portarla all’occhiello della giacca. Altro giro, altro colore annunciava lo speaker. Tra le spampanate gonne ondeggianti ad ogni colpo d’anca, alcune putivano di stantìo. Solerti madri avevano acconciato un loro vecchio abito alla figlia da marito. Chi se lo poteva permettere s’affidava ai negozi d’alta moda.

A Piazza Cairoli sfolgorava l’insegna al neon di Armando De Dominici, dalle parti del Genio Civile, in via Risorgimento, c’era l’atelier di madame Ferraro, madre di Mimmo, detto “cheval de nuit”. Zazà, come veniva pure chiamato, amava vivere la notte e dopo la limonata al sale, sorbita al mitico chiosco dei fratelli Allegra di piazza Cairoli, vagava con gli amici delle stelle a bordo della sua Fiat 1400, tra le prime auto a montare la radio e per di più con antenna retrattile.

Della brigata dei nottambuli faceva parte Ferruccio De Francesco, tipografo anarchico, come il padre che, per precauzione, schiaffarono in camera di sicurezza quel 10 agosto del 1937, quando Mussolini visitò la nostra città. Il 4 novembre di quello stesso anno in contemporanea ai cineteatri Impero e Savoia, abbattuti da mano palazzinara, per celebrare la vittoria dell’Italia fu proiettato il film di Carmine Gallone: “Scipione l’Africano” con Fosco Giachetti, Isa Miranda, Annibale Ninchi e Camillo Pilotto.

Ferruccio, smilzo, allampanato e dalla battuta facile e salace, soleva farsi i bagni al Lido Sud, situato nei pressi dell’alta velocità in fondo all’attuale viale Europa che, come altri stabilimenti, aveva in uso il sistema denominato “rotazione”. Con cento lire si aveva diritto a due ore di balneazione, previa consegna dei vestiti al deposito abiti che rilasciava una contromarca numerata. Un altoparlante avvertiva dei numeri in scadenza, per cui bisognava affrettarsi a ritirare gli indumenti, altrimenti scattava il rinnovo della sosta. Negli stabilimenti balneari di Mortelle, a parte i maggiori comfort, si preferì installare comode capanne a prova di perforazioni ad uso di occhi indiscreti. I giovani le ragazze nude le vedevano solitamente facendo i guardoni.

Era una generazione squattrinata, ma piena d’entusiasmo e originalità, priva di contatti con “Perfetti Sconosciuti”, per dirla col recente film di Paolo Genovese. Nell’immediato dopoguerra i poveracci fumavano le “stampatelle”. Erano fatte a mano col tabacco riciclato dalle cicche. In giro per la città era frequente la frase: “Scusi, mi fa accendere?”, dovuta alla mancanza di fiammiferi. Era un passa passa tra le poche sigarette accese alla miriade di spente.

Ferruccio un bel giorno d’estate si presentò alla cassa del Lido del Tirreno e richiese il sistema che aveva d’abitudine. Gli venne risposto che al limite avrebbero potuto concedergli una “mezza ca-panna”. La risposta arrivò fulminea: “Le aggiunga una brioche”.

Furono considerate donne emancipate in quanto continentali, le componenti di un quartetto d’archi che un autunno, dalle 18.00 alle 21.00, suonava languide melodie nel salone interno del Ritrovo Irrera, smagato dal volto orientaleggiante di fascino Ottocentesco. Tra queste c’era la graziosa suonatrice d’arpa Lulù Panelatte. Se ne invaghì perdutamente Nino Riva, timido trentenne, critico musicale e cultore di violino, strumento che si trascinava da casa, un villino fatiscente dietro la chiesa del Carmine.

Disperazione di Renato Irrera era Il cav. Sebastiano Lo Turco, superdecorato della Grande Guerra, che ordinava un caffè e occupava un tavolo per delle ore. Sul petto esibiva le medaglie al valor militare e vestiva di velluto verde, come Tito Schipa nel Werther. Lo strambo abbigliamento era completato da ghette giallo paglierino e cravatta a farfalla cadente.

Il maestro Riva restava in piedi per ascoltare la sua Lulù. La consumazione per lui era facoltativa, essendo nelle simpatie di Gilda Orecchio, la lady di ferro a cui Renato Irrera aveva affidata l’amministrazione del locale. Nino in quel periodo frequentava il Grand Hotel, situato accanto all’Upim. Era in corso una manifestazione musicale in omaggio ad Angelo Musco. Nonostante fosse scapolo, il maestro percorreva dal lato monte quel tratto di Viale San Martino che, dall’incrocio con la Via Santa Cecilia, porta a Piazza Cairoli, chiamato “vasca”. La parte a valle era detta dei cornuti. A coinvolgere Riva era stato Nitto Scaglione, ospite a vita nell’albergo di proprietà dell’attore catanese, scomparso nel 1937, per essersi affaticato sul set del film “Il Feroce Saladino”. Il giornalista, direttore dell’archivio storico del Comune, era autore del “Diario” che, in bella calligrafia, riportava gli eventi della città dal 1908 al 1950. Scaglione si era guadagnata tanta generosità per avere creduto, scrivendone da critico teatrale, al grande talento di Musco, quando il comico era agli albori della sua carriera.

Un gruppetto d’amici, per porre rimedio a un innamoramento alla Peynet, prenotò una cenetta nella saletta al piano superiore della trattoria “Lina”, adibita a manifestazioni riservate. Menu fisso della casa: frittura di calamari e gamberi, pane casereccio, vino faroto e, se di stagione, un cetriolo per digerire. Ospiti d’onore Nino e Lulù che restarono finalmente soli perché, i convitati, si dileguarono alla spicciolata.

La trattoria era nota alla cricca dei compari quale compendio di una scommessa ben architettata. Contrapposero il malconcio Placido a Diego, dichiarato imbattibile podista. Fervido devoto dell’Assunta, per Ferragosto era tra coloro che tiravano la Vara sulla via Garibaldi, i cui lastroni di pietra lavica erano di continuo bagnati per renderli scivolosi. La gara di resistenza si svolse lungo il circuito dei laghi, appena abbozzato e senza illuminazione. Diego, dopo un’occhiata al suo antagonista, accettò senza indugio la posta in gioco di una cena per dieci persone, appunto da Lina. Non tenne, però, sufficientemente d’occhio la vecchia Balilla della giuria che, posta al centro dei due contendenti, buttava una fioca luce sulla pista. C’è da dire che gli strabici lampioni erano solo davanti alla trattoria, dove Placido scendeva dal predellino dell’auto, che l’aveva trasportato per tutto il resto del tragitto e, ne risaliva sùbito dopo la macchia di luce. La solfa tirò avanti finché Diego, ignaro del trucco, cadde per terra stremato. Il maratoneta pagò incredulo la cena, non riuscendo a capacitarsi da dove provenisse tanta energia al suo gracile avversario. “Dal motore dell’auto”, farfugliò qualcuno, ingozzandosi di cozze.

Il gotha dei casati gentilizi era l’ossessione di Ugo Alvaro Bazan Romano Colonna di Vera Cruz, sfilza di patronimici con cui si presentò ad Orsino Orsini, direttore della Gazzetta del Sud. Una punta d’ironia accolse tanto nomine, per cui scattò facile la battuta: “È della dinastia dei Savoia?”. Ugo dall’alto del suo casato, agitando il mignolo con l’anello blasonato di marchese, replicò: “Quando i Savoia zappavano i Bazan erano già viceré di Sicilia”.

Ugo un 1° d’aprile, giorno del suo onomastico, ebbe in dono un capretto che affidò al cuoco del “Lastricheddu”. Era una “putia” di vino situata di fronte agli ex bagni Vittoria, oggi Caronte & Tourist. La specialità della casa consisteva nel cucinare i cibi portati dai clienti e far pagare soltanto il “disturbo”, oltre pane, vino e, se di stagione, i gelsi raccolti dall’albero che ne ombreggiava il lastrico. Era detta g’ghiosa, g’ghiosa niura che megghiu di frauli” dall’ambulante che la “b’banniava” per le vie della città. Allo schiticchio” non partecipò nemmeno il direttore Orsini, ritenendolo uno scherzo. Il “pesce d’aprile” ricade infatti in quel giorno.

Messina a quel tempo non si faceva mancare niente, consentendosi pure matinée danzanti. L’organizzava il maestro Gino Lorefice nel salone ai piani alti del cineteatro Peloro, già Impero. Vi si accedeva dallo stesso ingresso laterale dei bigliardi Borgia, situati, però, nello scantinato. Gino, con la sigaretta Camel penzoloni all’angolo della bocca da consumato viveur, gestiva il ristorante-night la Conchiglia, ex Miramare, sul Viale della Libertà, accanto ai bagni Principe Amedeo. Il suo fare brusco e sbrigativo alla Bogart, cedette all’amore fino in fondo … al mare. Respinto da una signora della Messina bene, si buttò con la sua Fiat bianca col tettuccio amaranto nelle acque del porto, nonostante i barili di essenze gremissero la banchina. I suoi ardori sbollirono appena in acqua e, mentre l’auto affondava, le sue grida d’aiuto furono udite da un ardimentoso dipendente dell’arsenale che lo trasse in salvo. Lorefice reagì alla sbornia sentimentale, organizzando per Carnevale una festa in abito da sera al cineteatro Savoia che, restò memorabile, perché si ballava in discesa. Il pavimento della sala, a cui erano state tolte le sedie per realizzare la pista, era ovvio slittasse verso il palcoscenico. Nella stessa struttura, Massimo Mòllica, in un locale adibito a deposito, realizzò il “Ridottissimo”, cioè il teatro nel teatro.

Il carnevale messinese che impazzava per le strade, stracolme di gente appresso ai carri, coinvolse pure la Camera di Commercio, quando gli esercenti crescevano di numero e d’incassi. Veglioni strabilianti con vedette, orchestre afrocubane, buffet e cotillon. Tra i ragazzi goderecci dell’epoca c’era Ugo Sansone, gioielliere per tradizione di famiglia, a cui capitò tra le mani una bottiglia di spumante che prese ad agitare oltre misura. Il tappo sfiorò il lampadario, il getto prese in pieno Giovanna Miceli, moglie di Ferdinando Stagno d’Alcontres, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana. La malcapitata rimase così zuppa e con i capelli tanto impiastricciati da essere costretta ad abbandonare la festa. Le scuse di Ugo, alquanto alticcio, non migliorarono lo stato d’imbarazzo perché, con aria desolata considerò ad alta voce: “Sconoscevo che la signora fosse astemia”.

Nell’altalena del tempo la nostra città è stata nella polvere e sull’altare, distrutta, tornata a rifiorire e mai, come adesso, buttata nel limbo della storia. Bisogna far leva sulle nuove generazioni, rendersi conto che la scienza ci porta sulla luna e il modo di gestire la cosa pubblica è rimasto terraterra. Non può esserci avvenire senza un dialogo nuovo, ci vuole un deciso punto e accapo, finirla con la gente incapace, con l’incosciente truffaldino che spaccia sabbia per cemento!

L’oggi, affossato dalla crisi, trova trastullo e conforto nella comunicazione on line , che bisogna ammettere si è rivelata straordinaria nella crociata di solidarietà dimostrata ai terremotati del Lazio. Tenere un piede nel passato e lo sguardo sul futuro, significa andare avanti, sfruttare l’esperienza di escogitati trampolini di lancio. Sarebbe come riprendere l’abbrivio per saltare un fosso. La via d’uscita potrebbe trovarsi nella volontà di farcela, affidarsi alla disperata speranza che sorregge i migranti sul fragile barcone della salvezza.

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