Il mondo che ci appartiene, che sa di casa, è quello che riusciamo ad abbracciare con lo sguardo. Dal pianoro su cui si adagia Palmi e dalle alture del Sant’Elia – ci troviamo sulla tangente alla curva dove si consuma il continente consegnandosi alle acque – il colpo d’occhio è mirabile: la Costa Viola che scorre via insenatura dopo insenatura e partorisce dagli abissi monti che s’inerpicano rapidi a scalare il cielo, l’imbocco della strozzatura dove il Terreno ribollisce inquieto nel vano tentativo di non confondere le sue acque con quelle dello Ionio, le due terre dirimpettaie separate dal paziente lavorio dei millenni, un angolo di Sicilia che s’allarga sinuoso in due direzioni mostrando il riverbero al sole dei laghi di Ganzirri imprigionati tra due sponde, l’orizzonte acquoso infranto solo dalle Eolie, con lo Stromboli che si erge in isolata superbia tossendo un fumo denso e nero che prova a scalare la volta per andare a pavoneggiarsi nuvola.
«Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine», scrisse Giovanni Pascoli che, tra il 1898 e il 1903, insegnò Letteratura latina all’Università di Messina e lì visse «i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita».
Sì, un luogo sacro. Che è anche magico e tragico, affollato com’è da presenze leggendarie, spesso nefaste. Sott’acqua, due mostri alleati, Scilla dalle sei teste latranti e in eterna afflizione di fame, acquattata nella caverna sotto un’alta rupe e ch’era lesta a ingoiare i legni delle navi distrutte e i marinai che si dibattevano tra i vortici provocati da Cariddi in agguato sulla sponda opposta. Sono ancora lì a contendersi le profondità con uno dei tre giganti messi dagli dei a sostegno dei vertici della Sicilia, con i piedi piantati sul fondo e braccia possenti protese a reggerne il peso e impedire che s’inabissi. Da qualche parte, sui fondali, Morgana, la fata sorella di re Artù, che talvolta esce dal castello su un cocchio trainato dal trotto di maestosi cavalli e si diverte a rendere di cristallo il mare prospiciente Reggio, in modo che vi si riflettano le immagini di Messina. Più giù, nelle viscere della terra con le acque per tetto, ha messo stabile dimora un demone terribile. Dormicchia il più del tempo. Capita però che si svegli dal sonno agitato e smani furibondo. Attacca a scuotere le profondità, le scianca, le rivolta. In superficie giunge il tremore di tanta furia, fino a infierire di distruzione e di morte.
Storia, leggende e tragedie che ci dicono un unico popolo. Con le tradizioni a suggellarlo. Su tutte, la Vara di Messina. Che ha origine nel 1535, in occasione della visita alla città di Carlo V, di ritorno da Tunisi appena conquistata. È un carro trionfale a forma piramidale che celebra l’Assunzione al Cielo della Vergine. Centinaia di devoti tirano dalle corde e lo fanno scivolare sull’asfalto bagnato delle vie cittadine. Nei giorni della festa girano per le strade, al suono dei tamburi, due mastodontiche statue equestri, lignee. Raffigurano Mata, bella e cristiana, e il moro Grifone, già Zanclo, il mitico fondatore della città.
Pressoché uguale la Varia di Palmi. Non poteva essere diversamente, venendo figlia a quella di Messina. Tutto nacque in seguito al generoso soccorso a un’immane tragedia. È il 1575. Messina piange, piegata dalla peste nera, giunta a bordo d’un mercantile genovese proveniente da Patrasso e divampata a causa del commercio di contrabbando delle merci della nave. Uccide 40 mila persone, il 71.5% della popolazione. Un caldo vento di scirocco raccoglie i gemiti della morte e se li trascina dietro. Li cala su Palmi assieme alla sottile sabbia che ha strappato al deserto. E Palmi accorre in soccorso del dirimpettaio a cui stenta la vita. È il 1578, già tre anni che Messina è flagellata. Barche cavalcano le lunghe dune su cui si trascina il mare, sbattono di prua spartendosi nella schiuma di due baffi uguali, puntano quel lembo di terra che s’allarga alla vista, mentre il sole s’annega piano dentro il mare tracciando una striscia dorata che muore sul bianco dell’onda.
In segno di riconoscenza i Messinesi donano alla città di Palmi un reliquario contenente un capello di Maria di Nazareth. Prelevato da quella ciocca che ricevettero dalle sue stesse mani, quando nell’anno 42 un’ambasceria si recò a Gerusalemme per darle conforto, a ciò indotta dalla pietà suscitata dai racconti di mercanti navigatori sulla vita e la morte di Gesù. Maria, grata, affidò anche una lettera di benedizione per la città.
Quel 1578 vede la nascita della Varia di Palmi.
Resterà sempre questo afflato tra le due comunità. Non a caso, dopo il terremoto del 1908, “Muore anche la sorella minore di Messina” titolò il quotidiano locale. Ci hanno reso fratelli per sempre i lunghi passi nel tempo percorsi fianco a fianco, le tragedie patite assieme.
E le tradizioni comuni, capaci di riannodare i fili della storia, di rinsaldare la memoria. La Vara ha saputo resistere meglio di altre all’usura e agli scossoni dei secoli. Ed è più viva che mai. Perché appartiene al popolo, ne incarna lo spirito, è il segno del passato, è la traccia della continuità.
Caricamento commenti
Commenta la notizia