Cominciamo dalla fine: l’economia corre più veloce della politica e i sistemi sociali, specie quelli che vivono fasi di stagnazione o, nel migliore dei casi, di “sviluppo asimmetrico”, sono sempre meno governabili. È il frutto avvelenato della globalizzazione, un effetto collaterale con cui dobbiamo convivere e che ci deve indurre a cambiare velocemente i modelli di governance, figli di un mondo che non c’è più.
Prendiamo questi principi, che sono alla base della scienza politica contemporanea e trasferiamoli sul terreno della Teoria dello sviluppo. Diventeranno la bussola indispensabile per orientare le nostre scelte, indirizzate a sostenere la crescita di una società. O a correggerne gli squilibri. Ecco, di tutto questo si è parlato nell’aula magna dell’Università di Messina, affrontando “la madre” di tutti i problemi italiani: la Questione meridionale. Una spina nel fianco della nazione che ancora, a distanza di 150 anni dall’Unità del Paese, non siamo stati capaci di estirpare.
La riflessione sul tema che ha polarizzato per oltre un secolo l’attenzione degli studiosi di economia, sociologia e storia, è stata proposta dalla Fondazione Bonino-Pulejo e dall’Ateneo peloritano, che hanno rinnovato, come ha tenuto a sottolineare lo stesso rettore Pietro Navarra, un connubio scientifico e culturale che dura da decenni e offre frutti fecondi. Specie ai più giovani. È stato il Presidente della FBP, il giornalista Lino Morgante, che è anche direttore editoriale della Gazzetta del Sud, a presentare gli ospiti; illustri, famosi, ma soprattutto chirurgicamente capaci di andare al nocciolo del problema. Il dott. Ferruccio de Bortoli, già direttore del Corriere della Sera e il prof. Ernesto Galli della Loggia, editorialista dello stesso quotidiano milanese, si sono divisi i compiti, e hanno discusso di Mezzogiorno alternando la prospettiva economica a quella più squisitamente storiografica. De Bortoli, che tra le altre cose ha diretto anche il Sole 24 ore, ha volutamente tracciato uno scenario realistico che, senza toni drammatici, ha però fatto comprendere la gravità del momento che vive il Sud d’Italia, stritolato tra una malformazione socio-politica che potremmo definire “strutturale” e il peso di una congiuntura, resa straordinariamente negativa dalla crisi finanziaria internazionale. L’oratore ha tracciato un quadro degli interventi nel Mezzogiorno, esprimendo un giudizio tutto sommato neutrale: nella prima fase, dopo la Seconda guerra mondiale, la Casmez riuscì a fare uno sforzo, soprattutto infrastrutturale, che migliorò in qualche modo le “facilities” del Sistema-Paese a sud di Roma. Poi, però, vari elementi concorsero ad arrestare l’impatto positivo che tali politiche ebbero. Ed è sembrato di capire che la sterzata da un modello di democrazia liberale a uno più decisamente statalista abbia avuto delle ripercussioni, non sempre positive, sul processo di sviluppo del Mezzogiorno.
Nel momento in cui il rapporto spesa pubblica-ricchezza è stato alterato da una parallela equazione tra spesa pubblica e consenso il banco è saltato. La ricerca di sostegni elettorali a qualsiasi costo ha finito per alterare una corretta analisi costi-benefici. Fino a giungere al momento di stallo attuale, in cui venuti meno i trasferimenti dal centro, il Sud non riesce più a recuperare nessuna spinta autopropulsiva. Il prof. della Loggia ha, invece, tracciato un quadro storico che ci ha riportato alle origini della Questione meridionale e all’unità del Paese. Spesso percepita, nel Sud, come una vera e propria “invasione” piemontese. Questa interpretazione “divisiva” delle nostre radici, secondo della Loggia dura ancora oggi e continua a rendere sempre più difficile l’attuazione di efficaci politiche di “coesione”.
Siamo i figli di un tronco storto, insomma, anche se quella che conta è la linfa, l’unica capace di rendere produttiva qualsiasi pianta. E la linfa dei meridionali è purissima, specie quella di cui sono portatori i giovani. Ecco, nell’intervento del giornalista è sembrato di cogliere una nota di speranza. Solo le nuove generazioni potranno farsi carico di un fardello che le varie “Repubbliche” (la prima, la seconda) non sono riuscite a sostenere, forse anche per limitate capacità culturali. Si è continuato, insomma, a perpetuare una terapia per una patologia sociale ed economica che aveva completamente cambiato tutti i connotati. Semplicemente, perché il mondo non è più quello di prima e corre verso dimensioni di una complessità sconosciuta.
Un sistema aperto, che assomiglia molto alla società vagheggiata da Popper, in cui non esistono ricette preconfezionate e in cui il determinismo storiografico e quello politico sono destinati a essere miseramente inghiottiti. La cerimonia di premiazione dei numerosissimi studenti che affollavano l’aula magna, tutto sommato, ha forse rappresentato l’alfa e l’omega della manifestazione. Come ha detto il rettore Navarra nei suoi “final remarks”, i giovani non sono solo un investimento sicuro sul futuro, ma sono anche lo specchio, vivace e nitido, di una società che non si rassegna a restare emarginata. Spes ultima dea.
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