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Procacciatore di voti
... a loro insaputa

Procacciatore di voti ... a loro insaputa

A disposizione, fratello. Che, poi, è la versione aggiornata, riveduta e corretta in salsa criminale messinese, del “A fra’ che te serve?”, dell’epoca lontana di Franco Evangelisti (il braccio destro di Giulio Andreotti) e dell’imprenditore Gaetano Caltagirone. Viene fuori dalla “Matassa”, come fossimo sul set dell’omonimo film di Ficarra e Picone, il ritratto del “procacciatore di voti”. Colui che un giorno, nei corridoi del Comune, ai giornalisti presenti disse: «Sapete perché mi hanno fatto capogruppo del Pd, perché sono il più “scarso”...». E giù una risata ammiccante, come a dire “sarò pure scarso, ma io sono io e voi non contate un c...”.

Ma per chi procacciava i voti, Paolo David? La risposta degli inquirenti è chiara: per se stesso, indubbiamente, ma soprattutto per i due cognati onorevoli, Francantonio Genovese e Franco Rinaldi. Li chiedeva e li otteneva, ma “a loro insaputa”, visto che, almeno in questa fase, né il parlamentare nazionale né il deputato regionale risultano indagati. Eppure dall’inchiesta emergono gli evidenti intrecci tra politica, clientelismo e criminalità organizzata.

David, e tanti altri come lui, hanno vissuto la loro carriera politica all’ombra del “lider maximo”. E non ne hanno mai fatto mistero, anzi hanno rivendicato con orgoglio di non aver mai “tradito” Genovese e il suo “sistema”. E, dunque, per David, e per tanti altri come lui, i cambi di casacca non sono dati rilevanti quanto, invece, la rivendicazione di una coerenza di fondo. «Andrò sempre dove va Genovese», ripeteva fino a l’altroieri, nella “buvette” di Palazzo Zanca, l’ex capogruppo del Partito democratico transitato in Forza Italia.

Il voto “controllato”, soprattutto nei quartieri popolari, c’è sempre stato, e non solo a Messina. Un tempo i “procacciatori di voti” venivano chiamati “galoppini”. E dalle intercettazioni, in fondo, si rimane sempre in ambito ippico, allorché Paolo David al suo interlocutore dice di essere «il cavallo giusto» su cui puntare. L’inchiesta della Procura della Repubblica, però, fa salire il livello del presunto reato commesso, da semplice “voto di scambio” a “corruzione elettorale”, una pratica scientificamente perseguita, per benefici personali, ma anche “in nome” e “per conto di chi”. Di chi?

Ed ecco che si torna al punto di partenza. David, per utilizzare il suo stesso linguaggio, è uno dei “cavalli giusti” di quella che, fino a prova contraria, è stata per anni la “scuderia” elettorale più forte a Messina, la stessa che ha fatto le fortune perfino di leader nazionali del Pd. Con i voti di Genovese e del suo entourage Bersani vinse le primarie contro il suo giovane sfidante, l’attuale premier Matteo Renzi.

Lo scenario che viene fuori dalla “Matassa” è desolante. È lo specchio di una città dove il diritto è sistematicamente scambiato per favore, dove si confondono i limiti dell’essere “a disposizione” degli “amici degli amici” con l’essere contigui alle famiglie mafiose (all’ex consigliere comunale Pippo Capurro, per anni colonna portante di Forza Italia di cui è stato lo storico capogruppo a Palazzo Zanca, poi transitato anch’egli, seppur per una breve stagione, nelle schiere dei “genovesiani”, viene contestato anche il concorso esterno in associazione mafiosa). È il “tanfo di mafia” di cui ha parlato nei giorni scorsi il nuovo assessore comunale venuto dalla Toscana, Luca Eller Vainicher. Un “tanfo” che si respira da Santa Lucia sopra Contesse a Camaro e che lambisce i “palazzi” della politica messinese.

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