Messina
C’è tanto Strehler ne “Il bugiardo” di Goldoni, la nuova produzione del Teatro di Messina conclusasi ieri al Vittorio Emanuele. C’è quel forte legame a un modo di stare in scena esclusivo della tradizione italiana, attraverso la macchina teatrale perfetta, cioè capace già di avere un valore per se stessa. E c’è anche, e soprattutto, la forza creativa di rendere attuali i “vecchi” caratteri, ottenendo da Goldoni tutta quella capacità, fatta di attenzione all’animo umano unita a una sorta di preveggenza, di essere moderno oggi, dopo essere stato considerato datato o almeno storicizzato per oltre un secolo.
Insomma il debito che il regista messinese Giorgio Bongiovanni ha con il suo Maestro e con “Arlecchino servitore di due padroni”, in cui ha interpretato per 25 anni il ruolo di Pantalone, appare chiaro ed è inevitabile. Ma bisogna aggiungere che Bongiovanni (pur non arrivando, almeno alla prima, alla “macchina perfetta”; in questi casi il rodaggio è indispensabile) non si è seduto sugli insegnamenti e nemmeno sull’imitazione. Come succede quando si conosce bene il teatro, è riuscito a lavorare sugli attori mantenendo una loro identità, pur nel complessivo disegno di una messinscena che nei personaggi in maschera mantiene, senza esasperare, i movimenti legati alla Commedia dell’Arte.
Ciò appare tanto più evidente nel protagonista Angelo Campolo (anch’egli, come tanti in questo cast, proveniente dalla scuola del Piccolo di Milano, periodo Ronconi). L’attore messinese, che abbiamo recentemente visto come eccellente Amleto, stavolta mette in evidenza altre sue qualità, legate alle caratteristiche comiche (spesso esibite in privato), sempre ben controllate, con una gestualità forte ma non eccessiva e con un uso dei registri vocali di prim’ordine. Attraverso Campolo, Bongiovanni ha potuto così dare spessore a un personaggio che, nel raccontare un modo di essere tipico di ogni tempo, è attuale. E il fatto che alla fine il bugiardo con le sue “spiritose invenzioni” risulti simpatico e se la cavi senza alcuna punizione (appare pronto a ricominciare) porta ogni spettatore a identificarlo in uno dei tantissimi bugiardi che affollano il mondo della politica, della finanza, dello spettacolo e così via. La grandezza di Goldoni, pur uomo del Settecento, sta nel suo porsi all’esterno della vicenda senza esprimere giudizi morali; lui fotografa e la sua messa a fuoco è sempre perfetta. Così nelle sue commedie non si è limitato a ritrarre la decadenza della nobiltà, ma ha anche individuato tutti i tarli che avrebbero autodistrutto o quasi pure la borghesia.
Notevole il contributo attoriale. Tommaso Minniti (Balanzoni e Brighella), Leonardo de Colle (Pantalone) ed Enrico Bonavera (Arlecchino) formano un trio di alto livello. Maria Laila Fernandez (Rosaura) è una giovane interessante. Ma è giusto soffermarsi sulla presenza, assai significativa, di diverse generazioni di attori messinesi: dai più “anziani” (si fa per dire) Carmen Panarello (Colombina e anche cantante dietro le quinte nella serenata iniziale) e Luca Fiorino (Ottavio) ai giovanissimi Roberta Catanese (Beatrice), Gabriele Furnari Falanga (Florindo), Lorenzo Pizzurro, Adriana Mangano e Simone Corso. Piacevole l’apporto sonoro delle musiciste Ilenia Giorgianni, Raimonda Ruginyte e Sonia Zanetti (musiche di Marco Mojana). Funzionale la scena di Carla Ricotti (firma anche i costumi), a cominciare dal canale veneziano che divide in due la scena: è una scelta che rafforza l’idea di fondo legata alla tradizione. Luci di Renzo Di Chio, maschere dei Sartori.
E il pubblico? Piuttosto passivo durante lo spettacolo, ha applaudito a lungo alla fine.
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