Forse era uscito dal “giro” Adelfio Perticari, vecchio-giovane uomo del clan Sparacio, adesso ritenuto però dalla Dda «vicino» al gruppo Ventura. In fondo ha solo 46 anni, ha scontato tutte le condanne che gli sono piovute addosso per quella stagione di sangue a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Se ne stava acquattato da tempo a Camaro a gestire un bar storico lungo la disgraziata via Gerobino Pilli, squartata dalla povertà e dalla mafia.
Ieri mattina Perticari, accusato di aver ammazzato il 9 aprile il 20enne Giuseppe De Francesco, ha parlato. E davanti al gip Maria Teresa Arena che ha deciso il suo arresto ha dato la sua versione su cosa è successo quel sabato mattina in un cunicolo tra quattro case scombinate, arlecchini di cemento e mattoni, distribuite senza molto senso in decenni di cementificazione e abusivismo.
Ha detto pressappoco - ovviamente è venuto a galla molto poco in un’inchiesta blindatissima -, che quella mattina del 9 aprile s’è visto in quel vicolo con Giuseppe De Francesco che si faceva chiamare di cognome Tortorella, per fare una “parlata”. Aveva la pistola, era da tempo che lo teneva d’occhio, quel ragazzo. Nei giorni precedenti aveva minacciato e picchiato il proprio figlio.
Ha sparato un primo colpo alla gamba per dargli una lezione, non avrebbe voluto fare altro, ma poi a quanto pare si sarebbero quasi scontrati fisicamente ed è partito un secondo colpo che ha centrato De Francesco alla schiena. Poi Perticari è andato via.
E poi, ormai, sappiamo com’è andata. De Francesco che forse non s’accorge nemmeno del secondo colpo e sale sul motorino dell’amico per scappare all’ospedale, ma cade mentre corrono nel sentiero vicino alla “fontana delle cozze” perché non può reggersi, il dolore è tanto, arriva un’auto e la fermano e lo portano all’ospedale Piemonte, dove con un filo di voce ripete in continuazione all’infermiere “non respiro, non respiro”. E poi muore a vent’anni perché aveva deciso, forse subendo anche l’effetto di quei “luoghi”, di fare un po’ il “capo rais” del rione.
Quindi dall’interrogatorio di ieri davanti al gip Arena, con accanto il suo avvocato Tancredi Traclò e di fronte i magistrati della Dda che seguono il caso, Fabrizio Monaco, Maria Pellegrino e Liliana Todaro, Perticari ha fornito una prima e fondamentale svolta nell’inchiesta sul delitto di Camaro, con la “confessione” dell’indagato. Anche se adesso bisognerà aspettare l’evoluzione di tutto. E ovviamente capire se il 46enne ha raccontato tutta la verità.
A quanto dicono era molto provato Perticari quando giovedì intorno alle due del pomeriggio si è presentato al carcere di Gazzi. E anche ieri all’interrogatorio. L’indagato numero uno dell’inchiesta su un omicidio a Camaro dopo tanti anni di apparente sotterranea calma, dovrà chiarire tanto altro ai magistrati e agli investigatori. Che da giorni vanno e vengono da via Gerobino Pilli per ricomporre i pezzi di una storia bruttissima. Una storia non fa più uscire la gente di casa ad una certa ora. E pure prima.
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La vicenda
Giovedì intorno alle 14 Adelfio Perticari, il 46enne considerato l’autore dell’omicidio di Giuseppe De Francesco, il ventenne ucciso a Camaro San Paolo lo scorso 9 aprile, si è presentato spontaneamente al carcere di Gazzi, dove gli è stata notificata l’ordinanza di custodia cautelare che gli contesta l’omicidio con l’aggravante mafiosa.
Da giorni carabinieri e polizia gli davano la caccia ma lui, che all’inizio delle indagini era stato anche sottoposto ad esame dello stub, aveva fatto perdere le proprie tracce. Perticari è stato inquadrato dalle telecamere di sorveglianza del rione di Camaro San Paolo nei pressi del vicoletto dove era avvenuta la sparatoria del 9 aprile.
Alla base dell’omicidio, secondo gli investigatori, ci sarebbe una vendetta. De Francesco, che da diverse persone era stato definito litigioso, sarebbe stato ucciso per una serie di «sgarri» e anche per un litigio nel passato con il figlio del quarantaseienne, già esponente del clan Sparacio.