Sulla scena incessantemente mutevole del presente, dominata da persuasivi, pervicaci e sempre più omologanti stili di vita, dai fatali effetti di spaesamento, resistono tenacemente alcuni dei segni forti della cultura di tradizione orale siciliana, che per generazioni hanno plasmato lo “stare al mondo”. E così, nelle complesse dinamiche relazionali, che rimettono in gioco pezzi di cultura popolare orientandoli sui nuovi bisogni individuali e collettivi, spesso piegandoli a tentativi di recupero di un’identità frammentata e controversa, la Settimana Santa in Sicilia si configura in molti casi come un territorio estremo di resistenza della tradizione.
Luogo elettivo della memoria rituale e di una devozione fortemente radicata, avvertita anche dalle nuove generazioni, la Pasqua siciliana nel dispiegarsi delle scene di quel singolare teatro popolare che è la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, disvela in maniera eclatante i tratti costituivi della propria cultura, i valori condivisi, sia sacri sia profani, le specifiche devozioni, gli elementi cerimoniali esclusivi. Tra gli elementi costitutivi, che, più degli altri, modellano gli spazi fisici e rituali della Passione nella cultura popolare siciliana, c’è da annotare il canto nella forma polivocale maschile, dominante rispetto alla marginale espressione femminile, codificato in una pluralità di stili e livelli verbali, dal triplo registro linguistico, latino, siciliano e italiano.
Canale privilegiato di comunicazione e mediazione con le figure del sacro, i canti della Passione si configurano come esperienza narrativa-catartica, in grado di far rivivere l’evento salvifico in una dimensione mitica, dove si ritorna ad essere “testimoni oculari” della passione di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione. Caratterizzati da ardite e virtuosistiche escursioni vocali del solista o dei solisti, dai tipici caratteri di vocalità popolare (voce sforzata, quasi gridata, solitamente di testa), i canti della Settimana Santa operano un’impressionante dissoluzione sonora dei versi intonati dalla “prima voce” solista, spesso replicati da una “seconda voce”, cui si aggiungono talvolta i registri vocali “alto” e “basso”, la cui crescente tensione tensione drammaturgica-vocale si esalta nella risposta ad accordo o a parti delle altri voci del gruppo.
I canti polivocali di tradizione orale intonati ancora oggi in molti paesi, e non solo nella provincia messinese, lungo i cortei penitenziali della Settimana Santa, costituiscono dunque un catalogo “vocale-rituale” di rilevante interesse sotto il profilo etnomusicologico. Oltre ad attestare una resistenza tenace dei valori di religiosità popolare siciliana, le voci dolenti del martirio di Cristo emergono anche come segni distintivi dell’identità collettiva.
“U lamentu” di Condrò, “I doli du Signori” di Alcara Li Fusi, “Lu venniri di mazzu” di Tusa, “Affaccia Maria” di Capizzi, “O Matri trafitta” di Militello Rosmarino e, ancora, “Visilla” di Barcellona Pozzo di Gotto, “Li parti ra cruci” e “Stabat Mater” di S. Stefano di Camastra, “Stabat Mater” di Caronia, “Jesu” di Novara di Sicilia e di Casalvecchio Siculo, sono solo alcuni titoli esemplificativi del cospicuo repertorio di canti della Settimana Santa rilevati nel territorio messinese da una ricerca etnomusicologica rigorosa, che ha preso le mosse a partire dall’ultimo trentennio.
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Tra i sepolcri
Tra le più radicate tradizioni pasquali messinesi troviamo i “sepolcri” (i “sapucchi”), gli altari delle chiese sono ornati di tanti germogli di grano, riso, legumi o lino, che vengono coltivati al buio durante l’anno e decorati proprio per essere esposti il Giovedì Santo (secondo la tradizione se ne devono visitare in numero dispari). Nell’ambito delle usanze locali, bisogna ricordare come in alcune famiglie i rametti di ulivo benedetti la Domenica delle palme erano usati anche per le orazioni popolari contro i temporali.