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D’Amico: «La mafia voleva uccidere un avvocato»

D’Amico: «La mafia voleva uccidere un avvocato». Si tratta del legale Giuseppe Lo Presti che ieri era in aula e ha appreso tutto durante l’udienza

Apprendere durante un’udienza da un pentito che la mafia barcellonese voleva ucciderti perché facevi il tuo mestiere con professionalità e non ti prestavi a scorciatoie giudiziarie nel difendere i tuoi assistiti.

Già, perché la mafia barcellonese in un determinato momento storico avrebbe progettato di eliminare l’avvocato Giuseppe Lo Presti, che con il collega Tommaso Calderone aveva assunto da tempo la difesa di parecchi componenti della “famiglia”.

Entrambi non erano “visti di buon occhio” per il rigore professionale, e quando il nuovo gruppo di vertice di Cosa nostra barcellonese nella metà degli anni 2000 fece il salto di qualità intessendo legami saldi con i “cugini” di Palermo, sarebbe stato messo in piedi questo progetto.

È questa in sintesi la dichiarazione-shock che ieri mattina il pentito barcellonese Carmelo D’Amico ha rilasciato durante l’udienza del processo d’appello “Gotha 1” per i riti ordinari, che si sta celebrando davanti alla corte d’assise d’appello presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara.

E l’avvocato Lo Presti ieri mattina era proprio lì, in udienza, al primo piano del Palazzo di giustizia. In quel momento non era seduto tra i banchi della difesa e sulle prime non aveva nemmeno capito bene che si parlasse di lui, un collega lo ha chiamato ed è rimasto a sentire, visibilmente scosso le dichiarazioni di D’Amico. Avrebbe dovuto interrogare il pentito in controesame subito dopo, ma opportunamente dopo questo racconto sconvolgente il presidente Lazzara ha sospeso l’udienza, il controesame si farà un’altra volta. Poi l’udienza è stata aggiornata al 5 aprile.

Quando è deflagrata nell’aula questa dichiarazione si stava esaminando la posizione di uno degli imputati, Angelo Porcino, e si sono come accavallate una serie di domande tra alcuni dei difensori, il sostituto procuratore generale Santi Cutroneo e il presidente Lazzara. Così è venuta fuori la ricostruzione di D’Amico, che ha fatto riferimento ad una serie di circostanze, ripetendo in continuazione il fatto che per quanto lo riguardava i due avvocati sono state sempre “persone per bene” e “corrette”.

Sarebbero stati - secondo quanto ha detto ieri il pentito -, Angelo Porcino il boss Giovanni Rao, quella sera, a discutere di un possibile agguato all’avvocato Lo Presti, e in ogni caso a “lamentarsi” della condotta dei due legali, perché non si prestavano a nessuna compromissione e svolgevano il loro lavoro con la corretta distanza tra legale e assistito.

In particolare D’Amico ha raccontato di una occasione precisa vissuta direttamente, quando già era “alla pari” con Rao nel ruolo verticistico assunto nell’ambito di Cosa nostra barcellonese: durante una “mangiata” organizzata dal gruppo mafioso in un locale, un vero e proprio summit, Porcino si sarebbe si sarebbe lamentato con Rao del fatto che l’avvocato Lo Presti, a cena per i fatti suoi con un ispettore di polizia nello stesso locale, lo avrebbe “snobbato” senza salutarlo.

Questo fatto, o la circostanza di averlo visto insieme ad un rappresentante delle forze dell’ordine - sempre a detta di D’Amico, le sue dichiarazioni si sono avute in una fase molto convulsa dell’udienza -, avrebbe fatto progettare quella sera a Porcino, e Rao, di voler eliminare il legale, per “punirlo” del distacco con cui era stato trattato. Progetto omicidiario cui D’Amico - ha tenuto a ribadire ieri -, all’epoca si oppose fermamente.

È ben comprensibile che clima hanno creato ieri nell’aula dell’assise d’appello queste dichiarazioni. L’avvocato Lo Presti era presente, l’avvocato Calderone era sostituito dal collega di studio Sebastiano Campanella, quindi ha appreso per telefono dal collega della deposizione.

L’avvocato Lo Presti ieri ha detto telefonicamente alla Gazzetta che preferiva non rilasciare alcuna dichiarazione «rimanendo sorpreso ma comunque sereno». L’avvocato Calderone, che oltretutto in un determinato momento storico, nell’ottobre del 2012, subì un “avvertimento” intimidatorio al suo studio, con il ritrovamento di un cappio, ha invece rilasciato una dichiarazione: «Rimango comunque sereno a fronte delle gravissime dichiarazioni del collaborante D’Amico. L’avvocatura non si può e non si deve mai piegare a nessuna logica che non sia quella delle professionalità e del rispetto delle regole, nonché del giusto distacco deontologico da processi e assistiti. La mia condotta è stata sempre ineccepibile e i fatti parlano per me».

Ma le dichiarazioni di D’Amico ieri non si sono fermate a questo prima che l’udienza si chiudesse. Nel corso della sua deposizione ha avuto modo di ribadire alcuni concetti e di introdurre nuove rivelazioni, anche sei in più d’una occasione a domanda del presidente Lazzara è emerso che si trattava di sue valutazioni. Due su tutte: nella seconda metà degli anni ’90 sarebbe stato attivo un “gruppo di killer” al servizio della famiglia capeggiata dal boss Giuseppe Gullotti composto da Nicola Cannone, Luciano Fugazzotto, Pippo Isgrò e tale Carmelo “cardillu”; l’ex vice presidente del consiglio comunale Maurizio Marchetta sarebbe stato intraneo al gruppo barcellonese, soprattutto con la vicinanza a Salvatore “Sem” Di Salvo, ma anche con il boss Rao, Porcino e l’esponente politico Santino Napoli.

Altri due passaggi: l’operazione antimafia “Sistema” sarebbe stata, per così dire, prospettata e “agevolata” da Cosa nostra barcellonese, nel tentativo di “eliminarlo per via giudiziaria”; prima dell’omicidio dell’ingegnere “Tony” Mazza, l’editore di TeleNwes che aveva rapporti con Beppe Alfano e che fu ucciso il 30 luglio del 1993, proprio qualche mese dopo l’uccisione di Alfano, sarebbe fallito un progetto di attentato affidato al “gruppo di killer”, e per questo poi l’esecuzione sarebbe stata affidata a D’Amico. Cosa succederà adesso dopo queste dichiarazioni del pentito è presto per dirlo. Probabilmente se ne occuperà la Distrettuale antimafia, oppure si tratta di affermazioni contenute in parte in verbali ancora “secretati” che rispondendo alle domande ieri in udienza il collaboratore di giustizia ha reso pubbliche. In ogni caso nessuno lo ha “stoppato” ricordandogli di verbali precedenti. In questo processo non è stata richiesta l’applicazione in appello di un magistrato della Dda, quindi viene condotto sul fronte dell’accusa soltanto dalla Procura generale.

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