Sei nomi. In alcuni casi non esiste ancora una verità definitiva tra le carte di un processo. Sei nomi che oggi verranno scanditi insieme a tutti gli altri, a partire dalle 11, nel primo giorno di primavera a piazza Duomo, dove si terrà la “XXI Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno”, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un appuntamento che Libera quest’anno ha scelto di portare a Messina e che raccoglierà oltre ventimila persone provenienti da tutta Italia, secondo le previsioni.
Beppe Alfano
Era un cronista, uno degli otto giornalisti ammazzati da Cosa nostra in Sicilia. Fu ucciso alle dieci di sera dell’8 gennaio del 1993 in via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto, con tre colpi di pistola calibro 22 esplosi da distanza ravvicinata. Di recente una clamorosa svolta nell’inchiesta ter sul delitto, a 23 anni dalla sua morte. Dopo le dichiarazioni del pentito barcellonese Carmelo D’Amico, la Procura antimafia di Messina ha iscritto nel registro degli indagati due persone: Stefano Genovese e Basilio Condipodero, entrambi 41enni, rispettivamente come presunto killer e fiancheggiatore. Per questa esecuzione sono già stati condannati in via definitiva a 30 anni il boss barcellonese Giuseppe Gullotti e a 21 anni come killer Antonino Merlino.
Graziella Campagna
Aveva 17 anni quando venne sequestrata e ammazzata a colpi di lupara sui Colli Sarrizzo. Era la sera del 12 dicembre 1985. Era nata a Saponara, dove viveva con la famiglia. Dopo vent’anni di depistaggi, al nuovo processo ergastolo al boss palermitano Gerlando Alberti jr e al suo “picciotto” Giovanni Sutera. Graziella - questa la sua “colpa” - aveva ritrovato, nella lavanderia dove lavorava da qualche tempo, un’agendina «compromettente» dimenticata da Alberti jr, in quei mesi latitante a Villafranca. Il cadavere di Graziella venne ritrovato due giorni dopo la scomparsa nei pressi di Forte Campone, a Villafranca, dal fratello carabiniere Pietro, che non si è mai arreso, continuando a indagare.
Anna Cambria
Il bersaglio dei killer era Francesco Alioto, centravanti della squadra di calcio di Rodì Milici. Secondo i processi già conclusi doveva essere eliminato perché era un appartenente al clan milazzese dei Sottile-Geraci, era inserito in un’organizzazione che curava lo spaccio della droga nella città del Capo. Avversava l’inserimento del gruppo messinese comandato dal boss Mario Marchese negli affari delle famiglie dell’hinterland milazzese. Si tenne un vertice nel corso del quale fu deciso di eliminarlo. Così la sera dell’8 novembre 1989, poco prima delle 20, Alioto parcheggiò la sua Fiat Uno in via Risorgimento, a Milazzo, nei pressi del bar Amoroso. I killer attesero pazientemente, poi entrarono in azione sparando all’impazzata. Alioto stramazzò a terra ma un proiettile vagante colpì la povera Anna Cambria, una splendida studentessa milazzese di 16 anni che frequentava l’Istituto Commerciale e che proprio in quel momento stava uscendo dal locale mangiando tranquillamente una brioche. Aveva appena comprato le gomme da masticare per il fratellino. Non riuscì a portargliele.
Giuseppe Sottile
Il figlioletto che muore al posto del padre, il killer che sbaglia bersaglio e il sangue di quel piccolo caduto di mafia, sporca di rosso terribile l’asfalto d’una strada secondaria di Milazzo. Il nome del piccolo Giuseppe Sottile, morto a 13 anni per la mattanza ricostruita nel maxiprocesso “Mare Nostrum”, è finito nell’oblìo. Il killer che sbagliò bersaglio quel giorno e l’uccise era Carmelo De Pasquale, poi ammazzato a Barcellona nel 2009 in un’altra guerra di mafia. Voleva diventare un gran giocatore di pallavolo Giuseppe Sottile. Tutte le mattine andava alla “Zirilli” di Milazzo, dove frequentava la seconda media. La sua vita si spezzò a soli tredici anni il 1. luglio del 1990, la notte in cui a Milazzo un commando mafioso lo scambiò per il padre, Felice Sottile, che quella sera doveva morire per una storia di droga. Non andò così. Quella notte i killer attesero a lungo l’auto di Felice Sottile, nascosti nei pressi della casa di famiglia, in contrada Fiumarella, a Milazzo. Attesero fin quando dall’auto scesero la madre del ragazzino e i suoi due fratellini, poi spararono con una pistola calibro 38 e un fucile calibro 12. Giuseppe si era fermato col padre, si preparava ad aiutarlo ad aprire il cancello della casa di contrada Fiumarella. Il cancello restò chiuso.
Ignazio Aloisi
Venticinque anni fa, il 27 gennaio 1991, Ignazio Aloisi, guardia giurata di 44 anni, veniva ucciso con tre colpi di pistola a Messina. Il dazio che l’uomo avrebbe pagato per la collaborazione data agli investigatori per identificare gli autori di una rapina al casello autostradale di Tremestieri. E nonostante ci sia già stata una condanna, la figlia del metronotte, Daniela Aloisi, non ha ottenuto il riconoscimento lo status di vittima di mafia. «Chiedo che dopo tanti anni di ritardi – ha detto in passato la donna –, mio padre, la cui memoria è stata più volte infangata, abbia riconosciuto il suo sacrificio». I parenti di Aloisi hanno chiesto il riconoscimento del ministero dell’Interno nel 1993, richiesta rigettata in prima battuta per scadenza dei termini. Ripresentata dopo la sentenza d’appello del 1995, in quel caso l’iter fu bloccato dal fatto che durante il secondo grado uno dei presunti mandanti Pasquale Castorina (condannato per aver ordinato l’omicidio) disse che Aloisi era stato il suo basista nella rapina e non si era mostrato soddisfatto della spartizione del bottino. Alcuni anni fa le indagini furono riaperte e sfociarono in un processo per calunnia nei confronti di Castorina per cui fu dichiarata la prescrizione del reato.
Attilio Manca
Era un giovane e brillante urologo barcellonese, fu trovato morto in circostanze poco chiare nel febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, città dove lavorava come medico. Sulla vicenda la famiglia Manca ancora cerca una verità sommersa. Fu tra i primi in Italia ad avviare le sperimentazioni per l’operazione alla prostata per via laparoscopica. La morte, così come stabilì l’autopsia ordinata dalla procura di Viterbo, fu causata da una iniezione letale composta da un mix di sostanze stupefacenti nocive e tranquillanti. La famiglia del medico insiste invece perché sia ricercata la matrice mafiosa per quello che viene definito un “omicidio”, mettendo la morte del congiunto in relazione all’operazione medica alla prostata a cui si sottopose in incognito in una clinica di Marsiglia, grazie a falsa identità, il boss corleonese Bernardo Provenzano. Di recente lo scenario processuale poterebbe cambiare dopo le dichiarazioni esplosive del pentito barcellonese Carmelo D’Amico: sarebbe stato «u calabrisi» a uccidere l’urologo barcellonese, il boss Rotolo lo chiamava pure «u bruttu»; «u calabrisi» era «un ufficiale dei Servizi», uno che «era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi». Perché? Il dott. Manca avrebbe curato in gran segreto Bernardo Provenzano con la “mediazione” dell’avvocato barcellonese Saro Cattafi. D’Amico, nel verbale, parla di incontri avuti sul caso Manca con il medico barcellonese Salvatore Rugolo, morto in un incidente stradale, che era cognato del boss Gullotti, e di colloqui in carcere a Milano con il boss della Noce Nino Rotolo.
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