E’ un febbraio “magico” per Angelo Campolo, che in cinema è coprotagonista di “Seconda primavera”, il film di Francesco Calogero in uscita in tutt’Italia, e in teatro è in tournée come protagonista assoluto di “Amleto” di Shakespeare per la regia di Ninni Bruschetta. Trentaduenne, messinese, già da tempo apprezzato non solo come attore ma anche per le sue regie, Campolo in "Seconda primavera" interpreta il personaggio di Riccardo, un giovane inquieto tra la fedeltà alla moglie e la passione per la ragazza che gli ha dato una figlia.
E’ un ruolo pieno di contraddizioni e sfaccettature, come lo ha preparato?
“Per prima cosa ho letto tanti libri di Philip Dick, per seguire la mappa di tutte le citazioni disseminate nella sceneggiatura di Francesco Calogero. Riccardo è descritto come un aspirante scrittore con uno spiccato senso di amor proprio misto a vanità. Interpretarlo è stata una sfida attoriale molto interessante. Non bisogna mai cadere nella trappola dello stereotipo o nella tentazione di mostrare il personaggio sotto una luce negativa. In questo mi ha aiutato Calogero, guidandomi ogni giorno verso un equilibrio tra consapevolezza e spontaneità. Da parte mia ho cercato di umanizzare il linguaggio forbito di Riccardo, restituendogli tutta la passione necessaria per dare avvio all'ingarbuglio sentimentale che sta alla base del film”.
Il cinema italiano è un ambiente piuttosto chiuso, riservato ai soliti noti. Quanto si deve faticare per riuscire a imporsi sul grande schermo?
“Personalmente credo che l’idea di "imporsi" sia una prospettiva sbagliata per chi vuole fare questo mestiere, soprattutto oggi. Da quando mi sono diplomato nel 2005 alla “Scuola del Piccolo” di Milano ho considerato una grande fortuna la sola idea di poter lavorare continuativamente praticando questo mestiere, non pensando alla carriera o a strategie di successo. Oggi sono passati dieci anni da allora e ho avuto il privilegio di vivere bellissime esperienze professionali segnate da importanti incontri umani con altri attori, registi e persone comuni. Non viviamo certo una stagione d'oro del cinema che, al di là di tutto, sta attraversando una strutturale crisi rispetto a come raccontare e interpretare la realtà. Dunque posso solo dire che per fare questo mestiere bisogna sempre di più contaminare gli ambiti di azione del nostro lavoro (teatro, danza, televisione, cinema), alzando la qualità del nostro impegno, nella speranza, non scontata, di poterlo mettere in pratica. Poi ben venga se tutto questo si tradurrà in successo o riconoscimenti”.
Per quanto riguarda il teatro, interpretare Amleto è il sogno di tutti gli attori. Come ci si accosta a un personaggio così fondamentale?
“Nessuna idea in partenza, ma un’esplorazione continua all’interno di una “bibbia” di parole che sono sicuro mi accompagneranno per il resto della mia vita. Il lavoro che portiamo in scena con una straordinaria compagnia di giovani attori diretta da Ninni Bruschetta, è uno scontro appassionato con il pensiero, fatto di carne e sangue, in grado di alternare di continuo gioia e dolore. Mi piace pensare che ciò che pesa sulla coscienza di Amleto sia il suo terrore per il futuro, la sua incapacità di buttarsi nella vita, proprio come oggi fa un’intera generazione di giovani spaventati, o condannati, al pensiero di affrontare gli imprevedibili scenari del domani. Questa “battaglia” si gioca all’interno di una sfida teatrale unica, coraggiosa e non priva di rischi: portare in scena il testo in versione integrale. Una cavalcata emotiva e fisica incredibile, di certo il più bel regalo che un attore potrebbe desiderare. Adesso siamo in tournée tra Monza, Brescia e Milano, al teatro Menotti dall’11 al 20 febbraio. Poi saremo al Vittorio Emanuele di Messina dal 26 al 28 febbraio”.
Sempre per il teatro, lei ha deciso di continuare a lavorare nella sua città, Messina, ed è reduce dal successo del suo progetto "Laudamo in città". E' difficile far cultura al Sud?
“Amo lavorare per la mia città, nella speranza che il teatro la smetta di parlare solo agli addetti ai lavori, ma sappia aprire le porte ad un nuovo pubblico, orgogliosamente popolare, proponendo uno sguardo contemporaneo per raccontare la realtà che ci circonda. Condivido questo percorso con Giuseppe Ministeri, presidente della compagnia “Daf - teatro dell’esatta fantasia”, da più di dieci anni. “Laudamo in città” l’anno scorso ha chiuso con un attivo di 6000 spettatori, un risultato straordinario che ci ha dato dimostrazione diretta di come il pubblico sia pronto ad accogliere e rispondere all’idea di costruire, nell’arco di un’intera stagione, un vero e proprio processo creativo “aperto”. Nel 2015 abbiamo coinvolto più di trenta ragazzi, guidati da 4 diversi registi a cui abbiamo chiesto di dirigere 4 differenti letture del “Pinocchio” di Collodi. Quest’anno omaggiamo l’opera di Pier Paolo Pasolini, con tre spettacoli che utilizzano tre codici espressivi diversi (prosa, teatro danza e musica) mettendo al centro l’incontro con lo straniero, un tema più che mai attuale”.
Infatti in televisione recentemente ha interpretato un extracomunitario in "Non uccidere". Anche il mondo della fiction presenta per un giovane attore le stesse difficoltà del cinema?
“All’estero la televisione ha compiuto enormi passi in avanti rispetto al cinema in termini di vitalità creativa, originalità e sperimentazione. Le serie televisive, così come quelle sul web, rappresentano un territorio fertile per molti giovani sceneggiatori, registi e attori sconosciuti. In Italia stenta ancora a decollare un vero e proprio impegno ad investire seriamente in un modo diverso di produrre per la televisione, un modo, per intenderci, che sappia sorprendere il pubblico, mettendo di continuo in gioco le sue aspettative. Al contrario, inutile nasconderlo, i nostri prodotti di reale successo popolare tendono tutti perlopiù a “tranquillizzare” gli spettatori, tracciando ampie linee di demarcazione tra bene e male, giusto e sbagliato, tenendosi alla larga dalle zone grigie e dalle sfumature, che invece sempre di più caratterizzano il nostro modo di percepire la realtà. Esempi come “Non Uccidere”, “Gomorra” o “1992” lasciano ben sperare e di riflesso non possono che essere ben accolte dagli attori che si trovano ad affrontare ruoli più stimolanti e di spessore”.
Ha avuto belle soddisfazioni anche su Internet, ideando e dirigendo, sempre a Messina, la webserie "A Famigghia". Un'esperienza da ripetere?
“Spero di sì e probabilmente ripartiremo a breve con la seconda stagione, visto il successo ottenuto. La ditta “A Famigghia” è immediatamente diventata la metafora perfetta per raccontare la storia di tre giovani “spaesati”, immersi nel cortocircuito culturale presente in tante province italiane, spesso incapaci di scegliere tra tradizione e cambiamento. Il mare, visto quasi sempre come elemento da attraversare per fuggire dall’isola, per transitare altrove l’aspirazione di una realizzazione personale, per noi diventa speranza per restare, per conoscere se stessi attraverso una sincera condivisione con gli “altri”, aprendo un interrogativo in merito alla possibilità di dire addio per sempre agli stereotipi di una Sicilia da “cartolina” che, forse, non esiste più”.
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