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Bianco, nero, a colori
Il Teatro che unisce

Bianco, nero, a colori Il Teatro che unisce

Il vento da Sud-Est soffia impetuoso e inarrestabile. E, come tutti i venti che si rispettano, porta via con sé tutto ciò che trova, disperde e unisce, mette insieme cose diverse e le ammucchia senza la necessità di un senso, lega e slega come gli capita. La metafora è utile per condensare pregi e difetti di “Vento da Sud-Est”, lo spettacolo prodotto da Daf – Teatro dell’Esatta Fantasia, in scena alla Laudamo fino a oggi e poi dal 13 al 15 novembre, e che nasce con l’idea – affascinante – di usare il teatro per un progetto di integrazione dei tanti migranti, “costretti” a rimanere a Messina.

Così Angelo Campolo, autore (insieme con Simone Corso) e regista, è partito da “Teorema” di Pasolini, il film (e romanzo) in cui un ospite inaspettato rompe l’equilibrio di una famiglia borghese, per mettere in scena inquietudini, paure, egoismi e razzismi provocati oggi dall’arrivo di migliaia di migranti che rischiano una probabile morte per evitarne una certa.

E lo fa affidando ruoli importanti, quelli di se stessi, a cinque minorenni, quattro del Mali, ospitati nel centro “Ahmed” di Messina, e una nigeriana. Tutti ben integrati – grazie a Clelia Marano e Alessandro Russo – non solo come persone ma anche come attori. Basterebbe questo per nobilitare la messinscena, peraltro vitalistica e coinvolgente, degna dei tanti applausi del pubblico.

Ma se rimaniamo nel campo strettamente teatrale si vede che il vento ha “ammucchiato” troppa roba intorno a un testo didascalicamente e utilmente ovvio, in un turbinio di stili che va oltre le necessità che questa operazione avrebbe comportato. C’è di tutto, insomma: teatro cronaca e teatro documento, teatro sociale e teatro politico, teatro denuncia e teatro psicologico, satira colorata e denuncia agra, straniamento e contaminazione, e altro ancora.

Insomma, Campolo, pur facendo complessivamente un lavoro interessante, in un certo senso non è riuscito a contenersi, affascinato lui per primo dalle tante possibilità che il materiale umano gli consentiva. Gli undici attori, infatti, meritano tutti una citazione in positivo: Glory Aibgedion, Patrizia Ajello, Luca D’Arrigo, Michele Falica, Claudia Laganà, Giuliano Romeo, Antonio Vitarelli, Mamoudou Camara, Moussa Yaya Diawara, Dusmane Dembele e Jean Goita. I quattro africani, aiutati dietro le quinte da Fasasi Sunday, hanno una presenza scenica di rilievo e una freschezza che esalta l’idea di differenza fra nero e bianco che lo spettacolo ci vuol mostrare.

Così, di fronte una famiglia bigotta e nevrotica che, pur portata alla nostra contemporaneità, echeggia quella raccontata da Pasolini nel 1968, si contrappone la genuinità di chi, vivendo di privazioni, non ha perso di vista una gerarchia di valori, che l’Europa sembra aver smarrito. Luoghi comuni e stereotipi, si dirà. Vero, ma occorre ammettere che questa scelta facilita molto il contatto tra platea e palcoscenico, crea una simbiosi in molti sincera, in altri buonista. L’atmosfera di grande entusiasmo fa pensare che nessuno dei protagonisti di questa esperienza, forse più vita reale che teatro, alla fine sarà come prima. Per loro il palcoscenico forse rimarrà il luogo di un’unica volta, dove però tutto può accadere e le convinzioni che a poco a poco impallidiscono possono creare una nuova luce al di là e al di qua della quarta parete.

Movimenti scenici di Sarah Lanza, scene e costumi di Giulia Drogo, musiche (fondamentali) curate da Giovanni Puliafito, luci di Gianni Grasso.

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